12/09/11

Medici o burocrati?










L'Art. 32 della nostra Costituzione così recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". Questo articolo merita alcune riflessioni. Cominciamo col dire che qui il costituente parlando della salute dell’individuo usa il termine "fondamentale" con lo scopo di impreziosire la valenza giuridica dell’aspettativa alla salute; salute da intendere non soltanto nel senso di assenza di malattia ma di benessere e di equilibrio psicofisico della persona, intesa nel suo complesso. Soprattutto se questa persona si ritrova in una condizione di particolare debolezza e vulnerabilità fisica. Cos’è allora che fa la differenza nell’art. 32? Partendo dall’inizio, la sua motivazione storica risale alla volontà del Costituente di dare vita ad una normativa diversa rispetto alla precedente che prestasse attenzione anzitutto alla dignità della persona del malato, in qualunque sua condizione; evidentemente l’intenzione primaria fu di evitare che un particolare stato di salute potesse divenire un criterio per discriminare e  ghettizzare le persone non sane, in categorie di serie a e di serie b. E’ giusto sottolineare che nella sua finalità argomentativa, l’art. 32 nasce con l’intento preciso di non volere declinare sul valore fondamentale della dignità e libertà umana; proprio perchè trattandosi di valori non negoziabili, avrebbero dovuto rappresentare nella scala dei valori costituzionali, degli univoci capisaldi sui quali poggiare l’alleanza terapeutica tra il medico e il suo paziente. La vita e la salute, sono dei beni tra loro complementari, aventi una connotazione non solo  individuale ma anche sociale, poichè a loro volta sono di supporto alla vigenza di un altro grande valore che è  il bene comune. Infatti se lo si perde di vista, può sorgere il rischio di andare incontro ad una società basata su derive esclusivamente libertarie, dove al massimo possono trovare accoglimento soltanto singoli desideri individuali, sul modo di gestire la propria vita e la propria morte.
Rebus sic stantibus, lo Stato dal canto suo si troverebbe costretto a farsi carico di fronte all'opinione pubblica del principio di autonomia come base di ogni scelta individuale.  Eppure quando si parla di vita, non ci si può esimere dal riferimento all’art.2 della Costituzione nel quale l’ordinamento giuridico riconoscendo l’inviolabilità fondamentale dell'esistenza, ne garantisce la vigenza, rispetto alla stessa organizzazione statale. Vediamo allora che il diritto inviolabile fa parte del nostro ordinamento perchè ha il preciso compito, di qualificare l’individuo al quale si rivolge come essere umano, dotato di dignità intrinseca. Piena e non graduabile. Ciò vuo dire che la dignità afferisce come dicevamo prima, al super valore della vita e di tutti i diritti che ne conseguono e che lo garantiscono. Tra i quali in prima istanza la salute e anche il diritto di libertà personale, sancito nella nostra Costituzione all'art.13. Per l'appunto, leggiamo cosa ci dice una sentenza del Tribunale di Nola del 2009. A quanto pare: "Nel caso del diritto alla salute o di altri diritti essenziali di pari rango a causa del carattere esistenziale di inerenza alla persona che essi rivestono, la rilevanza  centrale del principio di autodeterminazione vale a qualificarli come veri e propri diritti di libertà (ed in questo senso, la risoluzione del parlamento europeo (EU) del maggio 1997 garantisce ai cittadini la più ampia libertà possibile di 'scelta terapeutica'). Ne discende che ogni soggetto leso nella sua integrità psico-fisica non ha solo il diritto di essere curato nei termini in cui egli stesso desideri, spettando solo a lui decidere a quale terapia sottoporsi o, eventualmente, a quale struttura più idonea affidare le sue aspettativa di celere e sicura guarigione. Tali principi, già direttamente evincibili dalla nostra Carta costituzionale, hanno trovato piena attuazione nel d. leg. n. 502 del 1992 di riforma del nostro sistema sanitario, laddove, ....si è voluto valorizzare e attuare, in un ottica costituzionalmente orientata, la libertà di scelta curativa del paziente attraverso il passaggio da una visione monopolistico/pubblicistica del settore sanitario ad una visione liberista ed elastica del medesimo, fondata sul pluralismo dell’offerta”. Ma quando si parla del diritto alla salute, non possiamo esimerci dal trattare un altro grande tema controverso, rapprensentato dal diritto del libero consenso, al quale ogni paziente è tenuto ad ottemperare per legge prima di sottoporsi ad ogni trattamento sanitario, disposto dal medico curante. La pronuncia del Tribunale di Milano del dicembre del 2008, qui riportata, ci aiuta a comprendere il ruolo significativo della pratica del consenso del paziente, preventivamente informato sulla natura degli interventi sanitari; in essa si legge che “sulla base della legislazione emanata in ambito sanitario (si richiama l’art.33 l. 833/78 che qualifica i trattamenti sanitari come, di norma volontari) e delle pronunce giurisdizionali, il sistema giuridico si caratterizza attualmente in materia di autodeterminazione consapevole del paziente per una soglia particolarmente elevata di consensi ai trattamenti sanitari, sostenuta da uno scopo di rango elevato qual è il diritto alla salute. E’ proprio questa soglia che qualifica il rapporto fra medico e paziente imponendo al medico di non attribuire alle sue valutazioni e decisioni, per quanto oggettivamente dirette alla salvaguardia del diritto alla salute del paziente, una forza di giustificazione dell’intervento che esse di per sé non hanno….giacchè devono rapportarsi con un altro diritto di rango costituzionale qual è quello della libertà personale che l’art. 13 qualifica come inviolabile”.  Malgrado la lunghezza del punto di vista della Corte di Milano, abbia tentato di essere perentoria sul significato da attribuire al ruolo del medico, essa perde di vista una questione fondamentale. Infatti - forse volutamente – ignora il fatto che dall'approvazione della Costituzione repubblicana,  la salute non è più un valore individuale oggetto della sola autodeterminazione personale ma una questione di carattere “pubblico che incide  direttamente sul funzionamento del sistema”. Con ciò, vorremmo ricordare all’Onorevole Corte che nel rapporto diritti-doveri, il tema della salute, non può risolversi in un problema di sovranità assoluta sulla propria persona; perchè la volontà del paziente, per quanto ampia possa essere - per dirla con le parole di Stuart Mill- finisce inevitabilmente col misurarsi con la coscienza del medico, anch’egli una persona, con la sua autonomia e con la sua scienza. In poche parole, il paziente deve fare i conti con il criterio del limite, direttamente proporzionale al dovere di garanzia del medico, tenuto a comunicare e ad interagire con il suo assistito, fornendogli tutte le informazioni necessarie al suo stato. Insomma tra i due, esisterebbe un dovere reciproco di libertà-responsabilità che non può risolversi in nessuna prevaricazione né da una parte né dall’altra. E dunque se il medico non deve sostituirsi alla responsabilità del paziente è anche vero il contrario e cioè che non è tenuto a ridurre la propria prestazione a mera esecuzione della volontà di quest’ultimo. Casomai deve compatirne la sofferenza cercando di comprenderne il senso, in pratica vivendo l’esperienza della malattia in prossimità dell’altro. Soltanto a queste condizioni il medico può stabilire in modo corretto, caso per caso, le indicazioni o le controindicazioni della terapia da applicare, nell’ambito della sua personale responsabilità; facendo naturalmente salvi i diritti riconosciuti dal codice deontologico al malato, per quanto riguarda il suo consenso e la libertà di esprimere la propria opinione sul suo stato di salute. Almeno per rimanere coerenti con quanto affermato dal Comitato Nazionale di Bioetica, che nel 2008 si premura di ammonire “chi” intende porre anzitempo fine alla propria vita, spiegandogli di non potere pretendere di “esigere da parte del medico una collaborazione a tale azione”. Il punto è: tenendo presente l’idea del bene comune, quanto ciascuno di noi è arbitro assoluto del proprio corpo e quanta libertà spetta ai singoli?



dott.ssa Silvia Bosio
Dottore di Ricerca in Bioetica
U.C.S.C. Roma