12/11/11

Il vero problema resta l'Euro


Prima o poi verrà scritta la storia di questi nostri tempi, la storia dell’Italia berlusconiana ma anche dell’Europa dell’euro e della sua crisi. Allora, quasi certamente, molti giudizi dovranno essere riformulati.
La conferma delle dimissioni di Berlusconi all’indomani dell’approvazione, ad opera del Parlamento, della manovra di stabilità comprensiva del maxiemendamento che recepisce le indicazioni della Bce, ha dato un po’ di respiro ai mercati finanziari, ma non in misura eccezionale, nonostante i molti segnali che indicano che il prossimo inquilino di Palazzo Chigi sarà Mario Monti. Anzi, la pressione si è sposta sui titoli pubblici francesi. Così la serie si allunga: Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia, Italia e adesso la Francia.
Tutto questo significa che c’è qualcosa che non va in termini concettuali, di concezione, cioè, della moneta unica, di questa particolare moneta unica che è l’euro. Giappone e Stati Uniti, per fare due esempi di proporzione adeguata, hanno alti debiti pubblici ma non minacciano l’economia mondiale come si dice, invece, per i guai che potrebbero provocare alcuni Paesi appartenenti all’Eurozona.
Allora non è solo il basso tasso di sviluppo, una riforma in più o in meno, un diverso tasso di evasione fiscale, la maggiore o minore rigidità del mondo del lavoro: se si confrontassero i “più” e i “meno” di ciascun Paese, forse si arriverebbe a una forma di allineamento.
La differenza sta nelle caratteristiche anomale della moneta europea che, essa sì, ha provocato e sta provocando alcune macro-rigidità che rendono più complicate le scelte dei singoli Paesi: sia di quelli che dovrebbero aiutare (come la Germania) sia di quelli che dovrebbero essere aiutati.
Conclusione: nel trattare della crisi italiana, a Bruxelles o a Roma, invece che guardare all’ultimo tratto del percorso, bisognerebbe risalire alla stazione di partenza, capire che cosa non va nel meccanismo che è stato messo a punto. Senza negare specifiche responsabilità, ma senza evitare di andare a fondo nelle cause prime della crisi attuale, che sarebbe superficiale e sbagliato attribuire a qualche leader o a qualche formula di governo. Ciò aiuterebbe anche tutte le forze politiche, se riuscissero a guardare un po’ oltre la punta del loro naso, a trovare le soluzioni più adeguate alla situazione presente ma con la prospettiva di ripensare il quadro generale europeo.
Di Paolo

Tagliare i tassi aiuta ma non risolve la crisi

L’arrivo di Mario Draghi alla Banca centrale 'europea è coinciso con un taglio dei tassi. Una misura auspicata da economisti di diversa scuola, che in nulla deve farci temere un ritorno agli anni dell'azione discrezionale da parte delle banche centrali «inflazioniste»: Draghi è di un'altra pasta, un civil servant serio che sarà «tedesco» quanto basta da tutelare l'euro sopra ogni cosa. E sa benissimo che un conto è tagliare i tassi di quanto basta per agevolare un poco la ripresa, e ben altra cosa è l'ipotesi impossibile di usare - come in passato - l'inflazione come valvola d'uscita dalla crisi. Un euro forte è un bene per tutti: perché dalla reputazione della moneta dipende quella di tutta la Ue.
Le imprese italiane, tradizionalmente esportatrici, saranno aiutate dal taglio dei tassi. Ma non è dalla Bce che può venire la soluzione alla crisi del debito, e ce ne stiamo accorgendo anche noi. La cosa migliore che possiamo prendere dalla Bce sono i buoni consigli che prima jean-Claude Trichet e ora Draghi non si sono rifiutati di darci, come italiani. Idee preziose e importanti a cominciare da quella di una importante riforma del mercato dei lavoro che tocchi anche la flessibilità in uscita.
Perché quelle riforme siano possibili, però, ci vuole - come ha detto il capo dello Stato - coesione nazionale. Bisogna che la classe politica, ma anche giornali, opinione pubblica ed elettori rifiutino quella veduta corta che troppo spesso contrassegna i nostri tempi. E fondamentale che noi si ritrovi il coraggio e la passione di guardare lungo, di pensare che le scelte che faremo nei prossimi mesi saranno fondamentali non solo e non tanto per noi ma per i nostri figli e per i figli dei nostri figli.
Mancur Olson, un grande economista e scienziato politico, sostenne che a un certo punto i gruppi d'interesse arrivano a comporre un equilibrio. Non significa che vadano d'amore e d'accordo gli uni con gli altri, ma si «sistemano» in modo tale che le domande degli uni e degli altri non vengono a elidersi a vicenda. Questo equilibrio, questa stratificazione degli interessi particolari, rende più difficile il cammino delle riforme. Perché esse possono andare nell'interesse generale, ma si fermano a causa dei tanti che esercitano un potere di veto in nome di istanze particolari. È per questo motivo che anche in momenti così drammatici come quelli che stiamo vivendo la riforma delle professioni piuttosto che la riforma delle pensioni piuttosto che la riforma degli incentivi alle imprese non riescono a essere portate a compimento.
Luca Ricolfi ha scritto bene sulla Stampa, chiamando il bluff di quanti attaccano il governo a ogni piè sospinto ma fanno sempre proposte all'insegna del «benaltrismo»: nel senso che sono ben altri a dover pagare il conto della modernizzazione. Si parla del passo indietro che Silvio Berlusconi dovrebbe praticare. Il primo passo indietro dovrebbero farlo le lobby e lobbine che troppo spesso continuano a frenare lo sviluppo. Patriottismo è rinunciare ai propri vantaggi, per vivere in un Paese migliore.
E del resto anche quelle imprese e quelle associazioni avrebbero ben poco da gioire, in un contesto nel quale l'economia fosse permanentemente depressa. Più sviluppo, più crescita nel lungo periodo faranno bene anche a loro. Coraggio, allora: facciamo tutti un passo indietro (riguardo alle nostre rispettive caste e corporazioni) che si risolverà in un grande passo in avanti e in alto per il bene dell'Italia. Più Italia, meno corporazioni.
Gianpiero Cantoni

L'eredità del Governo Berlusconi per chiunque verrà dopo

Chiunque andrà a prendere il posto di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi non troverà una situazione da anno zero. Non dovrà ricostruire dalle fondamenta né il Paese né l’azione di governo.In questi tre anni e mezzo l’esecutivo moderato del Popolo della Libertà e della Lega, sotto la guida del premier, ha innanzi tutto messo in ordine i conti dell’Italia: che oggi – a parte il debito ereditato dai decenni passati – sono tutti positivi rispetto ai partner europei.
Il deficit sarà a fine 2011 al di sotto del 4%, rispetto al 5,8 della Francia: il nostro disavanzo sarà il migliore d’Europa dopo la Germania. Ciò che più conta è l’avanzo primario, il saldo tra entrate e spese al netto degli interessi sui titoli pubblici: l’avanzo c’è già nel 2011 per 13 miliardi. A fine 2014 arriveremo ad oltre 88 miliardi. Soprattutto questo è il cuscino di sicurezza per i Btp , che in queste settimane sono stati attaccati in maniera inverosimile dai mercati: l’Italia potrà comunque e sempre onorare il proprio debito come ha sempre fatto .
Ma nel 2013 avremo anche il pareggio di bilancio, per la prima volta nella storia dai tempi di Quintino Sella, e l’anno successivo un avanzo dello 0,2% del Pil. E questo grazie a manovre per 265 miliardi già attivate tra il 2008 e il 2014, di cui oltre 60 miliardi quest’anno.
A questi risultati hanno contribuito tutti i settori chiave, e tutti i ministeri.
Scuola e Università hanno praticamente completato riforme attese da decenni.
La stessa cosa si può dire per l’impianto della Funzione Pubblica: le linee guida sono state date anche se l’apparato stenta ad adeguarsi.
Il sistema previdenziale è in equilibrio: da noi si andrà in pensione di vecchiaia, uomini e donne, a 67 anni, prima dei tedeschi e molto prima dei francesi che hanno approvato l’innalzamento da 60 a 62 anni ma solo dal 2017.
Il mercato del Lavoro è stato profondamente innovato dando dignità di legge alla contrattazione aziendale, esattamente come chiede l’Europa. Anche qui contro la piazza della Cgil, il ‘no’ del Pd e, da ultimo, gli inverosimili distinguo di Emma Marcegaglia.
Tutto ciò è stato fatto garantendo un tasso di disoccupazione che è al di sotto di un punto e mezzo rispetto alla media della zona euro (8,1% contro 9,6), inferiore a Paesi come Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti. Ed un risparmio e una proprietà privata ai primi posti del mondo.
Auguri dunque e buon lavoro a chi andrà a Palazzo Chigi: che appunto non partirà da zero, e non potrà non tenere conto di ciò che in questi anni terribili (per il mondo, non solo per noi) è stato fatto. Con risultati dei quali andiamo orgogliosi . 
Di Paolo

Le nouveau Zidane


Si chiama Madin Mohammad,dovrebbe avere circa 9 anni,come si evince dal nome è di origine magrebina e dovrebbe giocare nelle categorie minori della squadra di calcio del Bordeaux,in Francia.
Mi sono casualmente imbattuta in alcuni video su Youtube che lo riprendono mentre compie autentiche,meravigliose prodezze col pallone.
Che sia un fenomeno,non c'è dubbio.
Che per gli appassionati di bel calcio,vederlo danzare con la palla di cuoio ai piedi sia una delizia,è altrettanto indiscutibile.
Peccato che in altri video questo"nuovo Zidane",com'è soprannominato,venga accompagnato dai genitori in importanti salotti televisi d'Oltralpe e che già vengano registrati servizi sulla giornata-tipo del baby-fuoriclasse.
Madin gioca a calcio,è un asso in questo,perciò dovrebbe correre dietro al pallone e stare sui libri:non glielo auguro ma un infortunio può stroncare la carriera di qualsiasi calciatore,quindi,sapere e saper fare qualcos'altro,potrebbe sempre tornargli utile.
Perché obbligarlo a fare il divo?
Sono sicura che Zidane a 9 anni non aveva telecamere puntate addosso.
Francesca