Il diritto è una struttura essenzialmente funzionale alla natura dell'uomo, dunque è iustum se rispetta questo aspetto sostanziale. Da tale premessa possiamo dedurre il senso antropologico del diritto. Esso per definizione, deve necessariamente coincidere con la difesa dell’uomo in sé, la quale a sua volta costituisce la ragione dello stare insieme in una comunità statale che esiste pro publico bono o meglio pro homo. Quanto detto trova conferma nel pensiero di Cicerone, il quale nel De re publica diceva: «certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall'errore. [...] È un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi può abrogarla completamente» (Cicerone, De re publica, III, 22, 33). E in questo contesto, come si inserisce l'interpretazione del diritto alla vita? Potremmo subito dire che questo dovrebbe essere un compito affidato essenzialmente alla legge suprema di un ordinamento - così detta suprema lex- la quale appunto dovrebbe perseguire l’obiettivo primario della tutela della vita per dire sì all’uomo e alla sua vita poiché come diceva Aristotele viventibus vivere est esse . Quanto detto ci fa capire che la violazione del diritto alla vita, in un regolare Stato democratico informato agli alti valori dei diritti umani dell'ultimo dopoguerra, equivarrebbe a negare tutto il diritto. E poiché – come diceva San Tommaso, la lex è l’ordinatio rationis ad bonum commune, finalizzata al raggiungimento del bene comune, essa non può essere trasformata nel suo opposto contrario. E' possibile infatti che uno stesso atto avente natura giuridica, può essere utilizzato o come diritto o come delitto, a seconda che si voglia proteggere o colpire il destinatario della norma. Vediamo allora che lo strumento giuridico, a volte può essere trasformato in una contraddizione legalmente istituzionalizzata, da parte di una maggioranza “legalmente” riconosciuta che però agisce contro una minoranza di esseri umani senza diritto o potremmo dire anche sottouomini. Per comprendere meglio quello che stiamo dicendo, è importante ricordare al lettore che il nostro ordinamento è di per sè positivo e nasce esattamente per promuovere la vita. Da ciò comprendiamo anche come non possa giustificarsi un diritto adespota (Cassazione, sentenza 14488/2004) cioè senza un padrone che lo rappresenti e quindi senza un soggetto titolare dello stesso. E allora, nel caso della vita gravemente disabile o che giunge alla fine, forse sarebbe opportuno il seguente suggerimento: e cioè prima di dare il via ad una legislazione pro morte come quelle già esistenti in Europa, occorrerebbe - così per parlare in punta di diritto - che il soggetto fosse preventivamente privato della sua capacità giuridica; potremmo dire in un certo senso declassato, nella sua personalità, per essere regredito a non persona e a non uomo. In breve penso che per istituzionalizzare a tutti gli effetti la fine fisica di un essere umano, sarebbe più coerente con il senso del diritto, privarlo della sua personalità giuridica e ancor di più del suo diritto ad essere uguale a tutti gli altri uomini facenti parte della medesima comunità umana. Per essere più concreti, la sentenza dell’Englaro ci da un esempio di questo declassamento, ma in modo - ci sia consentito - un po’ all’italiana, confuso e poco chiaro. In proposito, vorremmo ricordare ancora una volta al lettore che ci segue che l’art. 32 della nostra Costituzione, viene fuori dopo la scoperta degli orrori del nazismo. E il suo scopo, fu quello di prevenire altri orrori, riconoscendo nel diritto alla salute e alla vita il “fondamentale diritto dell’individuo” e l’ “interesse della collettività”.
Ora in proposito riportiamo alcune decisioni giurisprudenziali per comprendere come l’interpretazione del diritto, possa spingere la società a determinarsi verso una ben precisa direzione. Iniziamo con la Corte di Cassazione (Sentenza 21748/2007). Essa avvalendosi dei seguenti presupposti autorizza l’interruzione della vita di Eluana, ritenendola improseguibile: “quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e contemporaneamente" prosegue la Corte, quando “tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti" che "corrispondono al modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”. E ancora riportiamo quanto deciso dal Tar della Lombardia sempre nello stesso periodo: “l’alimentazione e l’idratazione artificiali con sondino naso gastrico integrano prestazioni poste in essere da medici, che sottendono un sapere scientifico e che consistono nella somministrazione di preparati implicanti procedure tecnologiche. Esse quindi costituiscono un trattamento sanitario, la cui sospensione non configura l’ipotesi di un eutanasia omissiva, ma uò legittimamente essere richiesta nell’interesse dell’incapace” (Tar Lombardia, sentenza 214/2009). E sempre sullo stesso motivo, anche la Corte di appello nel 2008 dichiarava che “in situazioni ove sono in gioco il diritto alla salute o il diritto alla vita, o più in generale assume rilievo critico il rapporto tra medico e paziente, il fondamento di ogni soluzione giuridica transita attraverso il riconoscimento di una regola (…) che colloca al primo postola libertà di autodeterminazione terapeutica”. A questo punto, mi chiedo: quando un persona pianifica lucidamente con autodeterminazione la fine della propria vita, così come del resto avviene nel caso di un suicidio, cosa c’è di terapeutico? E dove risiede l’interesse generale per la salute?
dott.ssa Silvia Bosio
Dottore di Ricerca in Bioetica
U.C.S.C. Roma
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