07/04/12

Dal mistero pasquale la verità sull’uomo

Nell’inno cristologico contenuto nella Lettera di San Paolo ai Filippesi (2,5-11) – che i biblisti ritengono essere uno dei più antichi inni liturgici della Chiesa primitiva – si afferma che Cristo, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini».
La dose viene però pure rincarata, balzando repentinamente dal mistero dell’Incarnazione al mistero pasquale: a Dio non basta farsi uomo, infatti ci avverte san Paolo: «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce».

Nel Venerdì Santo, dunque, vediamo il Figlio di Dio spogliato, nudo, impotente di fronte alla libertà umana. Il beato Papa Giovanni Paolo II, nel libro-intervista con Vittorio Messori Varcare la soglia della speranza (Mondadori, Milano 1994), ci ricordava: «Si può dire che Dio stia pagando per il grande dono concesso a un essere da lui creato […] E per questo si pone davanti al giudizio dell’uomo, davanti a un tribunale usurpatore che gli fa delle domande provocatorie» (p. 73). Da quel tribunale risuona ancora lungo i secoli, sino ad oggi, l’inquietante domanda di Ponzio Pilato: «Che cos’è la verità?» (Giovanni 18,38).
Questa domanda dovrebbe parecchio turbarci, dato che presunte «verità» ─ ognuna con il proprio certificato e rivendicazione di unicità e autenticità ─ circolano ormai in abbondanza e quotidianamente nella nostra era post-moderna, globalizzata e relativista.

Che lezione, dunque, può ricavare l’uomo del 2012 dal Venerdì Santo e da quel Cristo pendente sulla Croce, lo stesso che sarà acclamato dai cristiani nella Veglia pasquale come vivo e risorto al canto dell’alleluia?

Ci viene incontro ancora il beato Giovanni Paolo II con la sua saggezza, che oggi sappiamo essere non solo il frutto di una vita di studio e approfondimento filosofico e teologico, ma avere una «marcia in più» data dalla sapienza scaturita dalla preghiera, dialogo continuo con lo stesso Cristo: «[…] la condanna di Dio da parte dell’uomo non si basa sulla verità, ma sulla prepotenza, sulla subdola congiura. Non è proprio questa la verità della storia dell’uomo, la verità del nostro secolo? Ai nostri giorni tale condanna è stata ripetuta in numerosi tribunali nell’ambito dei regimi di sopraffazione totalitaria. E non la si ripete anche nei parlamenti democratici, quando, per esempio, mediante una legge regolarmente emanata, si condanna a morte l’uomo non ancora nato?» (pp. 73-74).

Dunque, «L’eloquenza definitiva del Venerdì Santo è la seguente: uomo, tu che giudichi Dio, che Gli ordini di giustificarsi davanti al tuo tribunale, pensa a te stesso, se non sia tu il responsabile della morte di questo Condannato, se il giudizio su Dio non sia in realtà giudizio su te stesso». Rifletti su questo giudizio e il suo esito ─ la Croce e poi la Risurrezione ─ non rimangono per te l’unica via per la salvezza. […]  Il cristianesimo è una religione di salvezza, cioè soteriologica» (pp. 75-76).

L’alleluia pasquale assume in questa luce un significato pregnante, poiché mentre da un lato ci ricorda la nullità prepotente dell’essere umano, dall’altro ci porta la grande notizia che Colui che abbiamo condannato è – in verità – l’Unico in grado di salvarci, dando  senso pieno e totale alla nostra esistenza in quanto Via, Verità e Vita.

Andrea Menegotto

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