L’attuale emergenza riguardante l’arrivo di diverse decine di migliaia di migranti tra cui molti richiedenti protezione internazionale sancisce definitivamente la trasformazione dell’Italia in terra d’asilo. Un’attenta analisi delle domande d’asilo pervenute negli ultimi anni indica, infatti, una complessiva e sensibile crescita dei richiedenti protezione internazionale, iscrivendo l’Italia tra i Paesi maggiormente esposti ai flussi per richieste di asilo tra i paesi industrializzati[1].
A fianco dell’incremento esponenziale del numero di cittadini stranieri residenti in Italia (dal mezzo milione circa del 1987, raddoppiato nel decennio successivo, agli attuali quasi 5 milioni) infatti si registra già da anni una crescita costante di richieste di protezione internazionale segnando in modo definitivo il passaggio di status dell’Italia da Paese d’emigrazione a quello d’immigrazione ma anche da quello d’esilio a quello d’asilo.
Tale passaggio è avvenuto molto gradualmente. Secondo alcuni autori[2], in tutto il periodo tra il 1952 e il 1989 vengono presentate in Italia 188.188 domande d’asilo. Non solo: nonostante il numero relativamente esiguo di domande, solo una minima parte dei rifugiati opta per la permanenza nel nostro Paese, scegliendo la stragrande maggioranza il c.d. reinsediamento verso paesi di più lunga tradizione migratoria (in particolare Stati Uniti, Canada e Australia). A dimostrazione di ciò, secondo i dati dell’ACNUR aggiornati al 31 dicembre 1991, soltanto 12.203 rifugiati riconosciuti dal Governo italiano risultano “stabiliti in Italia”[3].
Per i motivi di cui sopra, per quasi quattro decenni, il tema del diritto d’asilo veniva trattato in via residuale all’interno del più ampio dispositivo nazionale dedicato all’immigrazione. La situazione cambia all’inizio degli anni novanta con l’adozione della c.d legge Martelli[4] ma ancora di più a seguito delle ripetute emergenze occorse in quel periodo che vedono arrivare in Italia diverse decine di migliaia di persone bisognose di una qualche forma di protezione provenienti perdipiù dall’area balcanica (Albania, i paesi della ex Jugoslavia). Nel solo 1999 vengono infatti presentate in Italia oltre 33.000 domande d’asilo con il conseguente intasamento della procedura d’asilo ordinaria e il sostanziale collasso del precario sistema assistenziale nei confronti dei richiedenti asilo e rifugiati. Tuttavia anche di fronte a queste emergenze, i diversi governi preferiscono ricorrere all’emanazione di leggi o decreti ministeriali ad hoc, anziché affrontare il problema dell’assenza di una normativa organica in materia di asilo o quello più generale della mancanza di un vero e proprio sistema d’accoglienza in Italia.
Più di recente, gli arrivi per via terrestre e verso le coste pugliesi provenienti per la maggior parte dall’area balcanica che hanno caratterizzato tutti gli anni ‘90, sono andati a sostituirsi con gli sbarchi sulle coste calabresi provenienti perlopiù dal Medio Oriente[5] ed in particolare sulle coste della Sicilia che interessa in prevalenza il flusso dei migranti di origine africana. L’intensificarsi degli sbarchi, insieme al fatto che i flussi migratori sono di carattere misto (migranti economici e soggetti in cerca di protezione) hanno reso quindi necessario strutturare un sistema di accoglienza corrispondente sia all’obiettivo di favorire la tutela dei diritti e delle protezioni umanitarie riconosciuti a livello internazionale e nazionale, sia rispondente al rispetto delle regole generali di ingresso e di soggiorno.
I rilevanti interventi normativi vengono introdotti dalla c.d. legge Bossi – Fini adottata nel 2002, in particolare attraverso gli articoli 31 e 32 che definiscono le tematiche relative alla materia d’asilo. Nello stesso periodo, il processo di unificazione comunitaria in materia d’asilo – volto all’istituzione del c.d. Spazio unico europeo in materia d’asilo - inizia ad influenzare fortemente le politiche italiane. Quest’ultimo processo, avviato dall’adozione della c.d. Convenzione di Dublino[6] - approvata nel 1990 ed entrata in vigore in Italia a partire dal 1° settembre 1997 – e proseguita attraverso adozione dei decreti legislativi in attuazione delle Direttive UE in materia di protezione temporanea, di standard minimi d’accoglienza, di procedure d’asilo e di status di protezione internazionale, ha contribuito in maniera sempre più determinante all’avvio di una politica italiana responsabile nei confronti delle migliaia di rifugiati approdati nel Paese a partire dalla fine degli anni ’90.[7] Tale mutamento sia di carattere normativo che sociologico, ha avuto inevitabili ricadute sulle politiche di accoglienza e integrazione degli stranieri che chiedono protezione internazionale.
L’evoluzione e la crescita del fenomeno - caratterizzata dall’incremento complessivo del numero di arrivi sulle coste italiane e conseguentemente di un significativo aumento di domande di protezione internazionale nonché da un crescente interesse da parte dell’opinione pubblica – ha reso infatti necessario, mettere in piedi un sistema dì accoglienza articolato in diverse tipologie di strutture a seconda del tipo di soggetti ospitati in essi o della particolarità del servizio offerto portando ad una riorganizzazione generale del sistema.
Nadan Petrovic
[1] Nel 2008 si è collocata al quarto posto tra le mete prescelte dai richiedenti protezione internazionale, subito dopo gli Stati Uniti, Canada e Francia.
[2] C. Hein (a cura di), Rifugiati, Venti’anni di storia del diritto d’asilo in Italia, Donzelli editori, Roma, 2010
[3] A questo numero andrebbe aggiunto un numero discreto di rifugiati extraeuropei che hanno beneficiato della sanatoria della prima legge nazionale sull’immigrazione del periodo di post-conflitto segnatamente la legge n. 943 del 1986 (cosiddetta legge Foschi).
[4] Il decreto legge n. 416 del 30 dicembre 1989, convertito nella legge n. 39 del 28 febbraio 1990 – meglio conosciuta come legge Martelli – stabilisce le «norme urgenti in materia di asilo politico, ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e apolidi già presenti nel territorio dello Stato», definendo nell’articolo 1 alcuni aspetti rilevanti sul tema dell’asilo quali, ad esempio, la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato.
[5] A partire dalla seconda metà degli anni novanta iniziano infatti una serie di sbarchi dei rifugiati, per la maggior parte di provenienza mediorientale, sulle coste calabresi.
[6] Si tratta della convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame della domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri dell’Unione Europea, firmata a Dublino il 15 giugno 1990; in G.U.C.E. n. L 131 del 254 del 19 agosto 1997.
[7] Prima dell’adozione della Convenzione di Dublino molti rifugiati, una volta sbarcati in Italia, preferiscono ottenere un ordine di espulsione con intimazione a lasciare l’Italia e presentare la domanda d’asilo nei Paesi del Nord Europa. Tuttavia, a seguito dell’entrata in funzione di alcuni strumenti operativi a supporto della procedura di Dublino, anche tale ipotesi non poteva più essere percorsa.
Tale passaggio è avvenuto molto gradualmente. Secondo alcuni autori[2], in tutto il periodo tra il 1952 e il 1989 vengono presentate in Italia 188.188 domande d’asilo. Non solo: nonostante il numero relativamente esiguo di domande, solo una minima parte dei rifugiati opta per la permanenza nel nostro Paese, scegliendo la stragrande maggioranza il c.d. reinsediamento verso paesi di più lunga tradizione migratoria (in particolare Stati Uniti, Canada e Australia). A dimostrazione di ciò, secondo i dati dell’ACNUR aggiornati al 31 dicembre 1991, soltanto 12.203 rifugiati riconosciuti dal Governo italiano risultano “stabiliti in Italia”[3].
Per i motivi di cui sopra, per quasi quattro decenni, il tema del diritto d’asilo veniva trattato in via residuale all’interno del più ampio dispositivo nazionale dedicato all’immigrazione. La situazione cambia all’inizio degli anni novanta con l’adozione della c.d legge Martelli[4] ma ancora di più a seguito delle ripetute emergenze occorse in quel periodo che vedono arrivare in Italia diverse decine di migliaia di persone bisognose di una qualche forma di protezione provenienti perdipiù dall’area balcanica (Albania, i paesi della ex Jugoslavia). Nel solo 1999 vengono infatti presentate in Italia oltre 33.000 domande d’asilo con il conseguente intasamento della procedura d’asilo ordinaria e il sostanziale collasso del precario sistema assistenziale nei confronti dei richiedenti asilo e rifugiati. Tuttavia anche di fronte a queste emergenze, i diversi governi preferiscono ricorrere all’emanazione di leggi o decreti ministeriali ad hoc, anziché affrontare il problema dell’assenza di una normativa organica in materia di asilo o quello più generale della mancanza di un vero e proprio sistema d’accoglienza in Italia.
Più di recente, gli arrivi per via terrestre e verso le coste pugliesi provenienti per la maggior parte dall’area balcanica che hanno caratterizzato tutti gli anni ‘90, sono andati a sostituirsi con gli sbarchi sulle coste calabresi provenienti perlopiù dal Medio Oriente[5] ed in particolare sulle coste della Sicilia che interessa in prevalenza il flusso dei migranti di origine africana. L’intensificarsi degli sbarchi, insieme al fatto che i flussi migratori sono di carattere misto (migranti economici e soggetti in cerca di protezione) hanno reso quindi necessario strutturare un sistema di accoglienza corrispondente sia all’obiettivo di favorire la tutela dei diritti e delle protezioni umanitarie riconosciuti a livello internazionale e nazionale, sia rispondente al rispetto delle regole generali di ingresso e di soggiorno.
I rilevanti interventi normativi vengono introdotti dalla c.d. legge Bossi – Fini adottata nel 2002, in particolare attraverso gli articoli 31 e 32 che definiscono le tematiche relative alla materia d’asilo. Nello stesso periodo, il processo di unificazione comunitaria in materia d’asilo – volto all’istituzione del c.d. Spazio unico europeo in materia d’asilo - inizia ad influenzare fortemente le politiche italiane. Quest’ultimo processo, avviato dall’adozione della c.d. Convenzione di Dublino[6] - approvata nel 1990 ed entrata in vigore in Italia a partire dal 1° settembre 1997 – e proseguita attraverso adozione dei decreti legislativi in attuazione delle Direttive UE in materia di protezione temporanea, di standard minimi d’accoglienza, di procedure d’asilo e di status di protezione internazionale, ha contribuito in maniera sempre più determinante all’avvio di una politica italiana responsabile nei confronti delle migliaia di rifugiati approdati nel Paese a partire dalla fine degli anni ’90.[7] Tale mutamento sia di carattere normativo che sociologico, ha avuto inevitabili ricadute sulle politiche di accoglienza e integrazione degli stranieri che chiedono protezione internazionale.
L’evoluzione e la crescita del fenomeno - caratterizzata dall’incremento complessivo del numero di arrivi sulle coste italiane e conseguentemente di un significativo aumento di domande di protezione internazionale nonché da un crescente interesse da parte dell’opinione pubblica – ha reso infatti necessario, mettere in piedi un sistema dì accoglienza articolato in diverse tipologie di strutture a seconda del tipo di soggetti ospitati in essi o della particolarità del servizio offerto portando ad una riorganizzazione generale del sistema.
Nadan Petrovic
[1] Nel 2008 si è collocata al quarto posto tra le mete prescelte dai richiedenti protezione internazionale, subito dopo gli Stati Uniti, Canada e Francia.
[2] C. Hein (a cura di), Rifugiati, Venti’anni di storia del diritto d’asilo in Italia, Donzelli editori, Roma, 2010
[3] A questo numero andrebbe aggiunto un numero discreto di rifugiati extraeuropei che hanno beneficiato della sanatoria della prima legge nazionale sull’immigrazione del periodo di post-conflitto segnatamente la legge n. 943 del 1986 (cosiddetta legge Foschi).
[4] Il decreto legge n. 416 del 30 dicembre 1989, convertito nella legge n. 39 del 28 febbraio 1990 – meglio conosciuta come legge Martelli – stabilisce le «norme urgenti in materia di asilo politico, ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari e apolidi già presenti nel territorio dello Stato», definendo nell’articolo 1 alcuni aspetti rilevanti sul tema dell’asilo quali, ad esempio, la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato.
[5] A partire dalla seconda metà degli anni novanta iniziano infatti una serie di sbarchi dei rifugiati, per la maggior parte di provenienza mediorientale, sulle coste calabresi.
[6] Si tratta della convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame della domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri dell’Unione Europea, firmata a Dublino il 15 giugno 1990; in G.U.C.E. n. L 131 del 254 del 19 agosto 1997.
[7] Prima dell’adozione della Convenzione di Dublino molti rifugiati, una volta sbarcati in Italia, preferiscono ottenere un ordine di espulsione con intimazione a lasciare l’Italia e presentare la domanda d’asilo nei Paesi del Nord Europa. Tuttavia, a seguito dell’entrata in funzione di alcuni strumenti operativi a supporto della procedura di Dublino, anche tale ipotesi non poteva più essere percorsa.
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