08/08/11

Morire per sentenza e vivere per legge. Vivere e morire nella società democratica di oggi

Recentemente alla Camera è stato approvato il DDL sulle dichiarazioni anticipate di trattamento altrimenti dette DAT. Vediamo di capire di cosa si tratta. Il disegno di legge - successivamente trasmesso al Senato per l'approvazione definitiva - propone una normativa molto semplice che ha come scopo primario da una parte, tutelare la vita umana da ogni tipo di deriva eutanasica e dall'altro il rafforzamento dell'alleanza terapeutica tra il medico e il suo paziente.  Il testo infatti, ha ricevuto l'approvazione trasversale di un'ampia maggioranza che ha dimostrato di voler convergere l'attenzione su un orizzonte di valori comune.  Infatti il provvedimento ha condiviso una visione laica sui temi della malattia, disabilità e morte, nella quale ha prevalso un alto senso di responsabilità e di etica oggettiva che ha messo fuori gioco - almeno per adesso - innumerevoli polemiche politiche contrarie. Che cosa propone il testo. Iniziamo dal primo punto, dove all'art. 1 la legge "riconosce e tutela la vita umana quale diritto inviolabile e indisponibile". Pertanto essa "vieta ai sensi degli articoli 575, 579 e 580,  del Codice penale ogni forma di Eutanasia" e "impone l'obbligo al medico di informare il paziente (...) sul divieto di qualunque forma di eutanasia." All'art. 3 , viene precisato che alimentazione e idratazione "non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento". Mentre ai sensi dell'art. 4 e 6,  non è consentito ricostruire la volontà presunta del paziente, così che il fiduciario "si impegna a verificare attentamente che non si determinino a carico del paziente situazioni" di cui "agli articoli 575, 579 e 580 del Codice penale". Infine ai sensi dell'art.7 "il medico non può prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente".  In breve, in seguito alle note vicende giudiziarie dei casi Welby ed Englaro - dove i giudici hanno decretato per sentenza la fine di entrambi i pazienti -  questa normativa ha cercato di ripristinare giuridicamente un ordine logico-procedimentale che pone in ordine i principi primi del diritto. Di conseguenza è da ritenere reato, l'interruzione di presidi vitali come l'alimentazione e l'idratazione che sono un fondamentale sostegno per la tutela della vita e non certamente mezzi inutili e sproporzionati.  Dunque senza equivoci di sorta, è stato introdotto il divieto perentorio di sospendere arbitrariamente il sostentamento necessario per mantenere in vita, soggetti in stato vegetativo, poiché la loro vita non dipende nel caso specifico da particolari terapie mediche o da supporti tecnologici inadeguati”. Infatti pur essendo vero che l’impianto di una PEG, è in sè una procedura medica, non altrettanto può dirsi in ordine alla sua gestione che esula dalla categoria della futilità. D’altronde, cosa c’è di futile nel riconoscere, accogliere, tutelare e sostenere una vita sia pure nel momento della sua massima fragilità? Ricordiamoci che la ratio legis porta avanti un’ideologia completamente opposta alla cultura della morte ovvero la presa in carico del paziente, da parte della società che dal canto suo dovrebbe riconquistare il significato dei valori della coscienza e della vera solidarietà umana.
Il paziente  al quale si riferisce il comma 6 dell’art. 3 è “il soggetto” che “si trovi nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze, per accertata assenza di attività cerebrale integrativa cortico-sottocorticale e, pertanto, non può assumere decisioni che lo riguardino”.  Ora il concetto scientifico di coscienza è la “informazione integrata” e l’organo integrato è il cervello. Allora la coscienza, è una funzione molto complessa che per svolgersi correttamente deve consentire lo scambio di informazioni fra ambiente esterno (estero recettori), ambiente interno (enterorecettori) e cervello. In sintesi, nello Stato Vegetativo Persistente l’attività cerebrale è come dire, sospesa e non ha nulla a che fare con la così detta “morte cerebrale”.  E’ chiaro che l’obiettivo normativo, ha voluto ottimizzare il campo degli stati di “perdita di coscienza” rilevanti ai fini delle DAT per evitare arbitrari sconfinamenti abusivi che includessero anche altre situazioni patologiche come i comi o le demenze. Detto questo, il nostro Parlamento ha dato un chiaro segnale pro vita approvando un testo che ha allontanato qualunque tentazione di introdurre con le DAT il c.d. diritto di morire. Di certo quel che rileva è la concreta possibilità da parte del dichiarante, di rifiutare trattamenti terapeutici sproporzionati, contrari al comune senso di dignità. In tal senso il dichiarante, ai sensi dell’art. 3 comma 1, può esprimere “orientamenti e informazioni utili per il medico” che in adesione alla Convenzione europea di medicina del 1997 (OVIEDO) li prenderà in considerazione, motivando le sue opportune decisioni terapeutiche in base a due principi fondamentali: il principio di proporzionalità – precauzione e prudenza – e il principio dell’inviolabilità della vita e di tutela della salute. Naturalmente, si evince che il rapporto tra medico e paziente è regolato fortemente da un altro principio portante, quello del consenso informato, alla base dell’alleanza terapeutica assolutamente necessaria per un dialogo corretto e informato al rispetto della dignità della persona. Pertanto la legge consolida ciò che finora era stato solo una prassi e cioè che il paziente cosciente e consapevole debba obbligatoriamente essere informato sui trattamenti e sugli interventi  che può subire per poter esprimere il suo consenso. Senza il quale i trattamenti, non potranno avere alcuna applicazione, tranne che il paziente si trovi in una situazione di emergenza  che lo esponga ad un rischio grave. Per una puntuale comprensione del testo e al fine di fugare equivoci, va precisato che la dichiarazione anticipata, appunto perchè decontestualizzata rispetto all’eventuale verificarsi dell’evento patologico o traumatico, non può in nessun caso vincolare la volontà del medico, al quale resta la libertà di decidere caso per caso, la giusta terapia da somministrare. Infatti il medico, deve agire secondo la sua scienza e coscienza, tenendo nel dovuto conto sia il diritto positivo che le regole di pratica medica e della deontologia. A questo punto come afferma Laura Palazzani, vivendo in una “società sempre più convinta che la dignità dell'uomo sia legata alla sua consapevolezza di sé e alla sua capacità di autonomia, mancando le quali è possibile decidere in modo arbitrario cosa fare di quel corpo” dovremmo anche chiederci quale dovrebbe essere il ruolo del medico e soprattutto della scienza e della tecnica. E prima ancora dovremmo interrogarci sul concetto giuridico di salute valutato dall'art.32 della nostra Costituzione. Non potendo approfondire questi vasti argomenti in uno stesso articolo e per non abusare della vostra attenzione vi rimando al prossimo articolo.
Ma prima, vi lascio con un pensiero di uno scienziato notissimo nel mondo, Leon Kass: “tra le finalità intrinseche dell’agire medico, rientra senza dubbio il dovere di ottimizzare il fine della salute, attraverso il raggiungimento della guarigione. Così “credo” - continua lo scienziato - “nella scienza, credo nella tecnologia, credo nella medicina” e “contemporaneamente vedo che alcune tecniche uniformano gli esseri umani ed estendono un controllo pericoloso sul nostro corpo e le nostre vite”.



Dott.ssa Silvia Bosio
Dottore di ricerca in BIOETICA
U.C.S.C.  Roma

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