Nel 2011 si celebra il centocinquantesimo anniversario della nascita dello Stato-Nazione Italia.Può essere interessante leggere la storia di questi anni dell’Italia in chiave migratoria, non tanto perché si dovrebbe imparare qualcosa dalla storia (la storia è stata definita come “maestra della vita”: maestra che, tuttavia, nessuno vuole ascoltare!), ma proprio perché l’emigrazione è stata e rimane una caratteristica che ha accompagnato e continua ad accompagnare la storia italiana.
Nel 1861, lo Stato Nazione appena nato si dovette confrontare con la “questione agraria”: l’agricoltura italiana risultata arretrata ed inadeguata nel contesto europeo e mondiale, dominata com’era dal latifondismo (in particolare nel Meridione), con una classe imprenditoriale agricola contrassegnata da una incapacità di innovazione, mentre ampie zone praticavano un’agricoltura di sopravvivenza. Proprio a partire dalla questione agraria e dalla mancata rivoluzione industriale, inizia il “grande esodo” italiano verso le Americhe e l’Italia diventa uno dei principali Paesi d’emigrazione verso il “nuovo mondo”, a partire dagli anni ’80 del XIX secolo fino alla prima guerra mondiale.
Nel periodo tra le due guerre, il ristagnamento dei flussi migratori, viene coniugato con la politica autarchica del fascismo, anche in funzione della politica coloniale fascista. Ma l’emigrazione riprende subito dopo la seconda guerra mondiale. Per oltre cento anni l’Italia è un Paese di emigrazione.
Negli anni ’70, la tendenza cambia: diventato europeo, passa, in modo anche abbastanza veloce, da Paese d’emigrazione a Paese d’immigrazione. Certamente la storia passata di Paese d’emigrazione non ha aiutato l’acquisizione di una mentalità e di una cultura della nuova situazione di Paese d’immigrazione: la politica migratoria italiana si è barcamenata con le varie “sanatorie”, tra contraddizioni e paure. La legge quadro Turco-Napolitano e la successiva Bossi-Fini non hanno saputo realizzare una governance dei flussi migratori, anche perché, scimmiottando a volte le legislazioni di altri Paesi, non si è riusciti ad avere una politica che scaturisse dalla propria specifica situazione migratoria.
Nel 2000 l’Unione Europea è diventata il polo d’attrazione migratoria più importante, superando numericamente gli stessi Stati Uniti: in questa nuova fase è implicata anche l’Italia. La politica migratoria europea di questi ultimi anni ha avuto un andamento schizofrenico: da una parte la constatazione che le migrazioni sono strutturali per l’economia europea (anche nei periodi di crisi) e dall’altra la precarizzazione, accentuata dello status giuridico dei migranti extracomunitari, con una forte presenza in tutti i Paesi europei di clandestini (irregolari e indocumentati). Ciò ha favorito le politiche restrittive in nome della “sicurezza”, secondo la famosa formula: immigrazione = clandestini = insicurezza.
Nonostante le politiche migratorie, i flussi migratori, che erano presentati all’opinione pubblica come invasioni selvagge, si stanno lentamente stabilizzando. Tutti ci ricordiamo (ed è storia ancora recente, per non dire cronaca) le reazione nei confronti dei marocchini, degli albanesi, dei rumeni, degli zingari o rom, che ciclicamente hanno tormentato i sogni italiani, sotto la pressione delle campagne propagandistiche di alcune forze politiche, chiaramente xenofobe.
Di fatto si stanno stabilizzando sia gli albanesi e i rumeni, come gli immigrati dall’Est (moldavi, ucraini, ecc…) e gli emigrati dall’America Latina, come si erano stabilizzati precedentemente i flussi dal Nordafrica (Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto).
Alcune riflessioni sulla situazione attuale
In queste ultime settimane è successo qualcosa di completamente nuovo e inedito: l’esplosione del mondo islamico sia del Nordafrica (Tunisia, Egitto e Libia), come pure del vicino oriente. E non bisogna dimenticare la pressione dei flussi migratori dell’Africa sub-sahariana.
Le antiche formule del terrorismo islamico sembrano non spiegare i fenomeni nuovi di queste settimane, come sembrano non giustificare le reazioni politiche e militari da parte della Nato e delle Nazioni europee, e tantomeno le fibrillazioni davanti agli effetti di tali sconvolgimenti, che si stanno traducendo in una fuga per la sopravvivenza o fuga per la libertà.
Si invoca, addirittura, di cambiare o sospendere i trattati che regolano la circolazione all’interno dell’Europa.
Per far luce su tutto questo, vorrei citare alcune riflessioni di uno studioso dei fenomeni migratori, Lorenzo Prencipe, ex Direttore dello CSER di Roma.
In questi primi mesi del 2011, ancora una volta e in misura drammatica, migranti economici e richiedenti asilo, provenienti dall’altra riva del Mediterraneo e sempre più difficilmente distinguibili tra loro, sono diventati l’oggetto del contendere dei Paesi dell’Unione europea, evidenziando le palesi contraddizioni di un’Unione, volutamente disunita sulle politiche migratorie, che i singoli Stati pretendono gestire in proprio per ragioni essenzialmente elettorali, proponendosi così di frenare l’impetuosa avanzata di movimenti politici a chiara connotazione xenofoba.
Con l’entrata in vigore – il 1° dicembre 2009 – del Trattato di Lisbona, la materia riguardante l’immigrazione e l’asilo continua a far parte del cosiddetto terzo pilastro, determinato dalle scelte autonome degli Stati membri come sancisce il paragrafo 5 dell’articolo 63bis del Trattato, che salvaguarda «il diritto degli Stati membri di determinare il volume di ingresso nel loro territorio dei cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi allo scopo di cercarvi un lavoro dipendente o autonomo».
Pur augurandosi che l’estensione del voto a maggioranza qualificata possa, in futuro, facilitare un vero processo decisionale in senso comunitario e un approccio più realistico delle politiche migratorie, per il momento le politiche degli Stati membri sull’immigrazione e l’asilo si propongono, quasi esclusivamente, di rassicurare i propri cittadini, assecondando le loro paure e, invece di promuovere reali opportunità d’inclusione e di coesione sociale, continuano a cavalcare lo slogan della tolleranza zero. È questa la ragione per cui i singoli Stati europei gareggiano nell’approntare legislazioni restrittive – di cui è sintomatica l’introduzione del reato di clandestinità nell’ordinamento giuridico italiano, ora condannato dalla Corte di Giustizia europea – che diventano, almeno in parte, causa di nuovi ingressi irregolari e aumentano le nuove povertà che colpiscono soprattutto i migranti meno protetti giuridicamente.
Dinanzi al possibile processo di liberazione da dittature decennali in Nordafrica, in Medioriente e nella penisola arabica, ascoltiamo in Europa, da un lato, roboanti dichiarazioni che rievocano una novella caduta di Muri atavici e, d’altro lato, si moltiplicano inviti e appelli a non sottovalutare le possibili derive islamiste delle rivoluzioni, a far fronte a epocali invasioni di migranti e/o profughi, per facilità, chiamati – tutti – “clandestini”.
Dinanzi alla morte di centinaia d’immigrati nel Mediterraneo, assistiamo impassibili al macabro rimpallo di responsabilità tra chi avrebbe potuto salvarli in mare e non l’ha fatto per timore di doversi, poi, fare carico della loro accoglienza a terra.
In Italia, dinanzi all’arrivo reale di 25 mila migranti e/o profughi, soprattutto tunisini, e dopo l’iniziale tentativo governativo di tenerli tutti – e in condizioni disumane – sulla piccola isola di Lampedusa con l’obiettivo di rimpatriarli al più presto – perché clandestini – nei loro paesi di origine, abbiamo assistito nelle ultime settimane allo smistamento molto discrezionale, di questo “materiale umano” in alcune regioni italiane.
Dopo aver sostenuto per alcuni mesi, sotto la pressione della Lega, la tesi che la quasi totalità dei migranti arrivati in Italia non aveva i requisiti (solo perché proveniente dalla Tunisia) per richiedere l’asilo, tacendo il fatto che la valutazione dei requisiti per l’asilo è sempre individuale, il governo italiano decide di concedere un visto temporaneo per ragioni umanitarie con l’obiettivo di facilitare la libera circolazione di questi migranti nei paesi UE e la possibilità di raggiungere parenti, amici e conoscenti che vivono in Francia, Belgio o Germania.
Tale soluzione, fra l’altro, contestata dagli altri paesi UE e ostacolata dalla Francia che ha immediatamente chiuso le sue frontiere con l’Italia ricominciando a controllare (in deroga agli accordi di Schengen) tutti coloro che pretendono di espatriare, è stata accompagnata da appelli – specie da parte del ministro degli Interni italiano – a una necessaria e indispensabile solidarietà europea con quegli Stati membri, nel caso specifico l’Italia, che si trovano ad affrontare particolari situazioni emergenziali.
In mancanza di tale solidarietà e quindi di una reale dimensione politica, si è perfino invocata l’inutilità di una UE, puramente monetaria e mercantile, e la possibile decisione italiana di farne a meno, sottacendo però il fatto che sono gli stessi Stati nazionali – tra cui l’Italia – a non voler cedere quote di sovranità nazionale, per es. in ambito migratorio, a una UE anche politica.
In realtà, si invoca la solidarietà europea solo per salvaguardare alcuni interessi nazionali che, naturalmente, entrano in conflitto con gli interessi di altri paesi membri.
Dinanzi a tale situazione – in verità abbastanza disperante – credo sia utile più una riflessione su come e con quali mezzi rilanciare il processo di armonizzazione comunitaria della politiche d’immigrazione e d’asilo, piuttosto che mettere a confronto due paesi (per es. Italia e Francia) interessati, fra l’altro, alla mera strumentalizzazione in chiave elettorale del fenomeno migratorio e non a una reale ricerca di proposte razionali nel pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona.
Di Padre Beniamino Rossi
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