21/04/12

IL GIORNO PRIMO E L’OTTAVO/19. Sia che vegliamo, sia che dormiamo..


In questi giorni mi è capitata quella che i più riterrebbero una circostanza sfortunata e ho deciso di esplicitare alcune delle riflessioni che mi son trovato a fare.
Una settimana fa, d’improvviso mi son trovato in ospedale per un dolore misterioso e...
nel giro di qualche giorno avevo già subito una piccola operazione, colecistectomia, intervento poco doloroso, poco invalidante, ma con i noti amminicoli fastidiosi: la degenza, la convalescenza, la dipendenza dagli altri e lo stop delle attività abituali. Davanti a queste cose, la mia reazione è stata inizialmente semplificativa: sapevo che il problema non era un gran che, che non ne avrei riportato conseguenze rilevanti, che tutto si sarebbe risolto nell’arco di qualche giorno e con più attenzione. Beh, che cosa era questo in confronto a tanta sofferenza fisica e spirituale che tanti uomini si trovano a vivere per lunghi periodi? Io me la stavo cavando con poco e quindi badavo di non lamentarmi, di non prendermela, di vivere tutto al ribasso.

Poi, un sacerdote amico mi scrive una mail e mi dice: “Le sono unito in questi giorni di prova”. Queste parole mi hanno costretto a dover rivedere il mio atteggiamento e andare un po’ più a fondo.

La parola prova intendeva chiaramente il pensiero che per me questa situazione costituisse un sacrificio, una difficoltà nello scorrere della mia vita, una criticità che rendeva difficile recuperare l’equilibrio o la condizione in cui mi trovavo precedentemente. Qual era questo equilibrio? Quello di voler intendere il mio tempo come lo spazio in cui perseguire due obiettivi: la salvezza personale nell’obbedienza a Dio; e la salvezza degli uomini, con lo stare loro accanto in nome dello stesso Dio. Lo stavo mantenendo questo obiettivo, dentro la circostanza della malattia? Effettivamente no.

Era bastato che cambiassero di poco le circostanze normali della quotidianità, ed ecco che sembrava che lo scopo della vita fosse stato archiviato. Le indubbie difficoltà esteriori mi avevano già spinto in un luogo di dimenticanza e di estraneità a me stesso. Allora mi son fatto più attento e mi sono accorto che: avevo più tempo per rivolgere il pensiero a Dio anziché a tanti impegni; avevo un compagno di stanza infermo per il quale pregare, anche in considerazione delle chiacchierate già fatte; c’era tanto personale da assistere con la preghiera; c’era un infermiere molto presuntuoso e sgarbato rispetto al quale esprimere una raccomandazione all’Altissimo piuttosto che giudicarlo dentro di me; c’era la possibilità di pensare ai tanti ammalati del mondo, a partire dal sentire le mie poche sofferenze; la poca sofferenza era costitutiva una possibilità di penitenza… Accidenti, quanti modi per continuare a essere pienamente me stesso in questa circostanza! Ecco qual era la prova: mantenere la tensione della mia vocazione in circostanze prima non immaginate…ed ero già in ritardo!

Concludo con due pensieri. Il primo fa memoria di una espressione di san Paolo: “Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” ( I Tess 5, 9-10). Sia che vegliamo, sia che dormiamo: non c’è situazione in cui si può pensare che il senso della nostra vita sia accantonato, ma siamo noi che dobbiamo far diventare impegno il fatto di non distoglierci solo perché sembra che cambino le circostanze esteriori. La nostra appartenenza a Dio entra in ogni cosa: viverlo è la prova del cristiano.

Il secondo. Accade molto spesso che ciò a cui siamo affezionati è una condizione che permette alla nostra debolezza di restarsene ben nascosta: lo chiamiamo equilibrio, ma è solo un paravento. È nella realtà che dobbiamo dare risposte, nella concretezza, e la dobbiamo saper interpretare davanti a Dio, come qualcosa che c’entra con Lui. Dio è nella concretezza, sia essa la cosa più languida o fastidiosa che ci viene incontro: Dio è lì e ci chiede di aiutarlo a redimere esattamente quella cosa lì, non un’altra, quella alla quale ci eravamo affezionati.

Don Alberto

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