04/05/12

Rapporto primavera araba un anno dopo 7: Bahrain


La situazione di relativa tranquillità del Barhein, considerato uno degli stati del Golfo più liberali sotto la guida della famiglia Al-Khalifa, espressione della minoranza sunnita, si è interrotta con le proteste iniziate a febbraio 2011 e culminate il 14 marzo 2011 con l’intervento di forze armate e di polizia dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (in particolare Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti) a sostegno del governo del Bahrain. La richiesta di maggiore libertà, giustizia sociale e riforme politiche è sostenuta anche da cittadini della minoranza sunnita, ma la stragrande maggioranza dei manifestanti era naturalmente costituita da sciiti il cui peso demografico (circa il 70% della popolazione) ha corrispondenza nell’integrazione sociale e politica.

Il dilagare delle manifestazioni di protesta e la focalizzazione sulla richiesta di elezioni parlamentari suscettibili di portare al potere un partito sciita modificando l’equilibrio politico del paese, dove la minoranza sunnita esprime sia la famiglia regnante sia la classe dirigente, ha fatto si che la componente sunnita interna si organizzasse in un fronte pro governativo opposto ai dimostranti pro riforma.

Gli inaspettati livelli di violenza messi in campo in risposta ad una mobilitazione assai estesa e partecipata dalla società civile con un’ampia presenza della componente femminile, ha soffocato la protesta e seriamente deteriorato il quadro dei diritti umani. Il Report riferisce di 47 persone decedute in relazione alle proteste e di circa 2.500 arresti (di cui cinque morti a seguito di torture). Sono stati colpiti anche lavoratori stranieri. Sebbene lo stato di emergenza sia stato revocato dal re Hamad bin Isa Al-Khalifa il 1° giugno, con ritiro delle truppe dalla strade della capitale Manama, nel paese sono stati dislocati contingenti di polizia intervenuti con proiettili di gomma, granate stordenti, fucili, bombe sonore e gas lacrimogeni in oltre 20 villaggi.

Davanti alla National Safety Court istituita con lo stato di emergenza si sono celebrati molti processi definiti gravemente iniqui che hanno colpito anche esponenti dei partiti sciiti di opposizione. A fronte dell’interesse della comunità internazionale per le accuse di tortura e decessi in custodia il re ha compiuto l’inedito passo di nominare una Bahrain Independent Commission of Inquiry (BICI), formata da cinque esperti internazionali. Nel loro rapporto diffuso il 23 novembre 2011 viene affermato che le autorità del Bahrein hanno commesso grandi violazioni dei diritti umani, in parte prodotti dalla diffusa cultura di impunità. La Commissione ha raccomandato, tra il resto, la costituzione di un organismo indipendente di tutela dei diritti umani incaricata, tra il resto, di individuare la catena di comando sottostante tali abusi per poterne punire i colpevoli. Il governo, per parte sua, ha annunciato il processo a membri delle forze di sicurezza accusati di uso eccessivo della forza durante le proteste.

Nonostante tali passi positivi il rapporto di Amnesty ascrive all’approfondimento delle tensioni tra la componente sunnita e la maggioranza sciita del paese (alimentata anche dalla posizione di Arabia Saudita e Stati Uniti, che ritengono l’Iran una sorta di mano nascosta dietro ai disordini) una potenziale minaccia anche in termini di tutela dei diritti umani. Viene inoltre ritenuto provocatorio il costume governativo di concedere la cittadinanza a cittadini stranieri di fede sunnita arruolati nei ranghi delle forze di sicurezza.

In conclusione, la condizione del Bahrein quale snodo di interessi di forze regionali ed internazionali interessate al mantenimento dello status quo, ha trattenuto dall’intervenire a mitigare la repressione i paesi che tradizionalmente appoggiano la famiglia dirigente Al-Kalifa, con il risultato di approfondire ulteriormente la pericolosa polarizzazione della società.
Maria Leone

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