15/03/12

Sul senso della vita della "Persona": l'aborto post nascita

Quando si considera la vita un "oggetto biologico", tutto automaticamente diventa lecito, persino l'illogica definizione "ABORTO POST-NASCITA". Secondo due ormai noti bioeticisti italiani, nell'interesse della madre, va ritenuto legalmente ammissibile sia il ricorso all'aborto di feti sani e non sani sia la deliberata soppressione di poveri neonati indifesi; così forse perchè colpevoli di essere venuti tra noi, in questo mondo.
Ecco appunto ma come si ragiona in questo nostro mondo? Quali sono i criteri che lo guidano? La ricerca del bene? La responsabilità? La solidarietà? La giustizia? O l'efficienza "a tutti i costi"? Oppure ciò che seduce è l'arbitrio assoluto sulla vita propria e altrui? Dove sta la verità?
Ad esempio la solidarietà, cos'è? Un valore, un pregiudizio magari soggettivo e relativo a ciascuno di noi o invece qualcosa di condivisibile che indica coesione, vicinanza e perchè no, addirittura condivisione? Se guardiamo alla nostra Costituzione ci accorgiamo che all'art. 2 i nostri Padri costituenti, quando parlano della solidarietà, lo fecero, riferendosi al significato etimologico sunballo, equivalente a "mettere insieme, unire". Appunto per dimostrare considerazione verso chi nella società è più debole, bisognoso di cure perchè si trova tra gli ultimi.
E propio per ristabilire l'ordine e l'equilibrio, la Costituzione interviene per insegnarci che in una società giusta la dittatura della parte forte è una ingiusta sopraffazione dell'uomo sull'uomo che pone fine alla sua libertà. Nel senso che quando si parla di ingiustizia sociale, non esiste libertà per nessuno e nessuno è fino in fondo il vincitore. Basti dare uno sguardo al nostro più recente passato per renderci immediatamente conto degli innumerevoli sbagli di dittatura, commessi sia dal nazismo che dal più spietato comunismo marxista. Ebbene, alle soglie del nuovo millennio, ci risiamo. Il fantasma apocalittico della violenza sulle vite indifese, si fa strada con tanta eleganza e bon ton per riproporre una pellicola che tutti abbiamo già visto e che si fa beffa della strage degli innocenti. Cambia il nome del suo autore: Erode, Hitler, Stalin, Mao Tze Tung. Ma la sostanza condivisa, rimane sempre la stessa.  Alludo come accennavo sopra, al recente dibattito scatenato dalla coppia di bioeticisti di origine italiana, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, allievi neanche a farlo apposta, del noto filosofo australiano Peter Singer.
Stando al loro parere, nell'esclusivo e solo interesse della madre, sarebbe lecito e dovuto, poter ricorrere sia all'infanticidio del bambino appena nato e in nome della libertà di pensiero e di ricerca anche alla soppressione del feto. In breve per "puro esercizio di logica" i due studiosi affermano, nel pieno delle loro facoltà mentali che "lo status morale di un neonato è equivalente a quello di un feto nel senso che entrambi mancano di quelle caratteristiche che giustificano l'attribuzione del diritto alla vita di un individuo". Poichè sia un feto sia un neonato sono certamente esseri umani e" - badate bene - "potenziali persone, ma nessuno dei due è "persona" nel senso di un soggetto di un diritto morale alla vita". Cercando di fare un pò di ordine, ci accorgiamo che tale affermazione si fonda essenzialmente sulla convinzione che nel mondo del diritto vi sono esistenze senza alcun valore; soggetti che non sono titolari di alcun diritto soggettivo perchè sono semplicemente esseri umani privi o privati della soggettività giuridica.
Dunque la loro, è la vita di persone potenziali, alle quali mancano quelle caratteristiche che connotano l'appartenenza al mondo delle persone, aventi la c.d. capacità giuridica e la titolarità dei diritti della personalità. Questi ultimi sono ad esempio: la vita e l'integrità fisica, tutelati da parte del diritto penale che punisce l'omicidio e le lesioni personali e dal diritto civile che a sua volta provvede con il risarcimento del danno ex art. 2043; il diritto alla riservatezza, art. 10, che esprime l'esigenza di ogni individuo ad escludere dall'altrui conoscenza quanto ha riferimento alla propria persona; il diritto all'immagine personale, artt. 10, 97 r.d. 633/1941); il diritto al nome, art. 6, all'identità sessuale l.164/1982 e alla solidarietà, dove l'interesse protetto trova compimento nell'altrui prestazione; il diritto alla salute, art.32, coincidente con il rispetto dell'integrità fisica, da far valere erga omnes con il diritto all'assistenza sanitaria nei confronti della P.A. Dunque essi, i diritti della personalità sono senza ombra di dubbio: essenziali, personalissimi, non patrimoniali, assoluti, indisponibili, imprescrittibili, irrinunziabili e non trasmissibili. In sintesi, è l'ordinamento giuridico che riconosce o non riconosce "chi" debba essere considerato soggetto di diritti e di doveri ossia persona. Ma un conto è l'astratta idoneità a diventare titolare di rapporti, un'altro è la capacità - da capax, capere- che fa esplicito riferimento alla "quantità" e cioè alla "misura" dell'idoneità di cui stiamo parlando. Quindi se volessimo rapportarci nel concreto di ciò che è misurabile, dovremmo concludere che la personalità è come un premio che si vince per punti di percentuale e che segna la differenza tra chi ne possiede di pù e chi ne possiede di meno. 
Detto questo, dobbiamo ancora una volta invocare la nostra Costituzione, la quale sostanzialmente ci ricorda che ogni essere umano, in quanto tale, è considerato dall'ordinamento anche soggetto di diritto e che tutti i soggetti, hanno un uguale grado di soggettività giuridica. Però seguendo alcuni ordinamenti - tra i quali il nostro - ci accorgiamo che il concepito pur essendo come tutti un soggetto di diritto, non gode di una capacità per così dire "piena" ma parziale, un pò claudicante e se vogliamo pure eccezionale, limitata ad alcune situazioni e soprattutto, subordinata all'evento della nascita. Questa, in base all'art. 1 del c.c. determina, una volta e per tutte, il momento definitivo per l'acquisto della piena capacità giuridica. Tuttavia come afferma Pessina "ci sono fasi dell'esistenza in cui non siamo in grado di esercitare la nostra libertà che è il presupposto della moralità". Ora ne consegue che "se il diritto alla vita (e quindi il divieto di uccidere) riguardasse soltanto le persone nel significato morale, si dovrebbe affermare (e tale è in fondo la posizione di Enghelhardt e Singer) che gli adulti liberi e coscienti potrebbero lecitamente decidere della vita e della morte di tutte le persone negli stadi premorali (dall'embrione all'infante), di coloro che si comportano im modo immorale.......e di quanti per condizioni patologiche non sono in grado di essere autonome". 
Fatte tutte queste premesse, mi sembra di capire che per qualche motivo i conti non tornano e che malgrado i suoi paletti protettivi, il diritto non sempre è in grado di difendere chi non ha piena coscienza. E prima di ogni cosa, non tutela il super-principio costituzionale di uguaglianza, formale e sostanziale.  Ai sensi dell'art.1 c.c. la nascita va intesa come la separazione del feto dal corpo materno che inizia con la prima respirazione polmonare che avviene quando si è nati vivi. Così ai fini dell'acquisto della capacità, anche se solo per pochi attimi, la vita del neonato ha valore giuridico pieno. Eppure a volte non basta perchè ciò che pone sempre tutto in discussione è il concetto "morale" di persona che definisce un"ente autocosciente, razionale, capace di attività morale, dotato di autonomia". Pertanto può darsi il caso che nel mondo del diritto ritroviamo, diritti senza soggetti, privati come se non fossero delle persone, della corrispondente situazione giuridica come il diritto alla vita.
E se provassimo a rimanere fedeli alla Costituzione? Forse una via di uscita ci salverebbe.


dott.ssa Silvia Bosio
Dottore di Ricerca in Bioetica
U.C.S.C. Roma

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