18/11/11

Trentasei vite in attesa di permesso di soggiorno


Arrivo ad agosto, appena oltre la metà. L'attesa è palpabile come il caldo che si attenua appena tra le mura spesse della casa che le accoglie. Sono trentasei le persone, le storie d'Africa che cercano una ripartenza da questo quadrato di pareti, da questo paese incastonato nelle alti Valli di Lanzo, in un progetto curato dal Consorzio Connecting People.
Alberto, il direttore, mi presenta due signore congolesi che hanno acconsentito all'intervista.
“Al centro va tutto bene,” mi dicono. “Ma siamo arrabbiate con il direttore.” “E perché mai?” chiedo io. La donna più magra sorride, e non sembra faccenda usuale per lei. “Gli chiediamo tutti i giorni se gli hanno comunicato la data di incontro con la commissione. Lui ci dice di no e allora nous nous fâchons, noi ci arrabbiamo.” “Stiamo benissimo qui,” dichiara l'altra donna. “E Alberto è bravissimo, però è con lui che ce la prendiamo, anche se sappiamo che non è colpa sua.”
Appena ottenuto il permesso, dovranno lavorare, mi spiegano: sono due donne sole, e da sole dovranno crescere i loro bambini. In Libia avevano un lavoro: una è maestra elementare e l'altra assistente sociale.
“In Congo c'è tanta sofferenza. C'è la guerra,” aggiungono. “Siamo dovute fuggire anche dalla Libia. Gheddafi ha spedito in Italia tutti gli stranieri, soprattutto i neri. Non abbiamo dovuto pagare un solo franco. Ucciderà tutti quelli che restano,” spiegano.
Mentre le signore salutano, Alberto mi chiede se desidero la traduzione. Decido di cavarmela con il francese e l'inglese che mastico; nel caso qualche parola sfugga, mi darà una mano lui. Dal corridoio proviene un certo tramestio. La porta socchiusa rivela due coppie con bambini. Le donne sono entrambe incinte.
La prima coppia si siede. Lui è un ingegnere, lei una parrucchiera. “Faccio le treccine anche alle bianche,” dichiara. “So fare unghie, capelli, preparare le spose: questo è il mio mestiere e vorrei farlo anche qui in Italia.”
L'inizio della loro fuga verso il Nord è recente e comincia da una violenza subita dalla signora da parte dei ribelli ugandesi durante la guerra in Congo. “Io mi trovavo al lavoro,” racconta il marito. La signora mi spiega di non essersi del tutto rimessa. “In un ospedale del Ciad, ho ricevuto le prime cure. Qui in Italia, vorrei continuare a curarmi.” E la cura desiderata sembra andare oltre la dimensione medica.
Dopo il Ciad, la famiglia si ferma in Libia, dove l'uomo trova lavoro come elettricista. L'Italia non era nei progetti.
Oltre al bimbo in arrivo, la coppia ha due figli qui in Italia, una di un anno e mezzo e uno di tre, e altri tre più grandi, lasciati con una zia in Congo. Non hanno più contatti con loro da quando sono arrivati qui in Italia.
“Il mio più grande desiderio,” dichiara l'uomo, “è di riunire la mia famiglia.”
Qui a Lemie? “Ovunque sarà, andrà bene,” dicono entrambi, prima di salutare.
L'altra coppia in attesa è formata da due giovani. L'uomo ha lasciato il Camerun nel 2005. E' un muratore, ma anche un calciatore che ha giocato in seconda divisione. “Non avrei voluto venire in Europa come immigrato,” racconta. “Avrei voluto avere un documento prima di partire per la Libia. Ma non ho fatto in tempo.”
Chiedo loro di raccontarmi come si sono conosciuti. “It was a difficult moment for me,” dice lui. Lei dichiara sorridendo di sentirsi molto fortunata e racconta, in un inglese molto ricco, la storia di una ragazza molto giovane costretta dopo la morte del padre a sposarsi con un amico ultracinquantenne del vecchio zio. La ragazza però aveva un unico desiderio per il futuro: proseguire gli studi oltre la maturità. Decide allora di fuggire dal proprio paese, dalla propria famiglia.
“Per convincermi,” dice, “lo zio mi promise che avrebbe pagato i miei studi. Ma se non avessi acconsentito, mi avrebbe buttato fuori di casa. Non avevo altra scelta che fuggire.” conclude semplicemente. “Mia madre? Le donne non contano niente in Camerun. Lo zio le ha detto di restarne fuori.”
“E in Italia continuerai a studiare?” le chiedo.
“No, preferisco lavorare adesso. Ho già una figlia e ne aspetto un'altra, che nascerà a settembre. Sono troppo vecchia, ormai,” dice. Non c'è l'ombra di un rimpianto nella sua voce.
In Libia insegnava l'inglese ai bambini in una scuola privata. Qui in Italia, vorrebbe fare la commessa.
“E oltre il lavoro, quali sono i tuoi sogni per la tua vita qui in Italia?” domando ancora.
La ragazza sembra interdetta. Poi dichiara: “Tutti i sogni si accompagnano al lavoro. Come si realizzano altrimenti?”
Le chiedo uno sforzo di immaginazione, che forse le pare un salto nel vuoto, o forse solo un volo infantile. Comunque, non subito, risponde: “Mi piacerebbe tanto visitare Roma.”
Serena Naldini 

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