Mettersi in contatto con persone recluse nelle carceri, o internate negli ospedali psichiatrici giudiziari, vuol dire mettersi in contatto con un mondo di sofferenza, solitudine, umiliazione, che non deve essere ignorato, dimenticato a chi chiede ascolto, comprensione, rispetto e soprattutto spirito fraterno. Quando si riesce a dare tutto questo senza giudicare, senza pregiudizi o falsi moralismi, ma cercando soltanto di far capire, di scoprire l'umanità di ognuno, facendo distinzione tra errore ed errante, allora il dialogo si apre e si illumina come una finestra verso la luce.
È triste e frustrante aver sbagliato perché prima o poi, si mette in discussione se stessi, si dubita delle proprie capacità di recupero e di reinserimento, e ci si convince di essere incapaci di poter cambiare vita, e allora viene meno la speranza di venire accettati come persone degne di stima, macchiate per sempre, e si perde la forza di vivere.
Tutto questo lo si sente dai nostri racconti di vita, dalla solitudine affettiva alla paura di perdere gli affetti lasciati fuori dalle mura, dalla disperazione repressa del sentirsi inutile, senza un lavoro che ti aiuti a sentirti vivo alla rabbia e all'impotenza davanti alle mille ingiustizie della vita carceraria.
Non c'è posto, oggi come duemila anni fa, per chi è senza voce, per chi non ha mezzi, prestigio, potere, ed è per questo che si scatena la lotta e la Pace resta un'utopia nonostante le tante parole, le marce e persino le preghiere, se queste non si tramutano in fatti concreti così come ci ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo.
In carcere ci sono persone delle culture più diverse, psicologie più varie fino a quelle patologiche, persone con reati diversi, dal piccolo ladruncolo al pluriomicida, persone di età diverse, dai quattordicenni agli ultraottantenni, posso affermare che in tutti, salvo qualche eccezione, ho trovato e trovo tutt'oggi una certa sensibilità, spesso repressa o come impolverata, ma capace di risplendere di nuova luce usando comprensione, sincerità, coerenza, amicizia e soprattutto disponibilità di accoglienza nella società.
Ogni anno, in certi eventi come la Natività di Nostro Signore, o per la Santa Pasqua, ci sentiamo naturalmente tutti più Buoni, ma penso che al punto in cui siamo arrivati, non si tratta soltanto di fare qualche opera buona, ma di operare giustizia facendo "posto" nella società, così sfacciatamente opulenta, a coloro che vivono ai margini, perché anche noi siamo parte integrante di questa nostra società.
Se aiuteremo la barca di nostro fratello ad attraversare il fiume, anche la nostra barca avrà raggiunto la riva. Buon Natale".
Alfio Diolosa, 52 anni, detenuto nel braccio di "alta sicurezza" del carcere cagliaritano di Buoncammino.
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Alfio Diolosa
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