In vita mia ho visto Marco Pantani due volte: quando correva con la Carrera che fu di Claudio Chiappucci e, qualche anno dopo, mentre pedalava in mezzo al gruppo con la maglia rosa. Se invece dovessi conteggiare le volte che l’ho ammirato, tifato e incitato da casa – come se il tubo catodico mi consentisse di essergli sul serio accanto - mi troverei dinnanzi ad un calcolo impossibile. Perché è stato il mio più grande amore sportivo. E non solo il mio, a giudicare dall’immenso seguito che aveva anche a fine carriera, quando sembrava un airone con le ali stanche, quando tutto ciò che rimaneva dei suoi mitici scatti erano guizzi evanescenti.
Oggi sono otto anni dalla sua morte. Anni che, almeno per me, sono volati se penso che ricordo benissimo il momento in cui ricevetti la notizia: «E’ morto Marco Pantani». Un sms di mio padre – anche lui tifosissimo di Marco - che mi raggiunse come un fulmine a ciel sereno mentre giocavo a biliardo con alcuni amici in una Vicenza che mi parve di colpo gelidissima; anzi, gelida come non lo sarebbe più stata. Naturalmente conservo come reliquie le copie della Gazzetta dello Sport che riguardano il Pirata, compresa quella del 15 febbraio 2004, con quel titolone a tutta pagina - «Se n’è andato» - e l’immagine di Marco Pantani di spalle, rivolto verso chissà quale traguardo. Magari uno di quelli che contano, in quota. Di quelli che lui raggiungeva puntualmente prima degli altri.
Meno male che ci sono ancora, disponibili anche su internet, i filmati delle sue imprese. Meno male che praticamente tutti i suoi ex compagni di squadra sono ancora lì, pronti a testimoniare quanto fosse grande quel corridore. Meno male, insomma, che la sua memoria – pur colpita prima dalle ombre del doping e poi da quelle della tossicodipendenza – giace protetta, a disposizione di tutti i tifosi che l’hanno amato e di coloro che avrebbero voluto farlo. Perché sarebbe impossibile, altrimenti, raccontare – senza essere presi per pazzi - la velocità con la quale il Pirata scalava le montagne. Tutte le montagne, dall’Alpe d'Huez al Mortirolo.
Giuliano Guzzo
Oggi sono otto anni dalla sua morte. Anni che, almeno per me, sono volati se penso che ricordo benissimo il momento in cui ricevetti la notizia: «E’ morto Marco Pantani». Un sms di mio padre – anche lui tifosissimo di Marco - che mi raggiunse come un fulmine a ciel sereno mentre giocavo a biliardo con alcuni amici in una Vicenza che mi parve di colpo gelidissima; anzi, gelida come non lo sarebbe più stata. Naturalmente conservo come reliquie le copie della Gazzetta dello Sport che riguardano il Pirata, compresa quella del 15 febbraio 2004, con quel titolone a tutta pagina - «Se n’è andato» - e l’immagine di Marco Pantani di spalle, rivolto verso chissà quale traguardo. Magari uno di quelli che contano, in quota. Di quelli che lui raggiungeva puntualmente prima degli altri.
Meno male che ci sono ancora, disponibili anche su internet, i filmati delle sue imprese. Meno male che praticamente tutti i suoi ex compagni di squadra sono ancora lì, pronti a testimoniare quanto fosse grande quel corridore. Meno male, insomma, che la sua memoria – pur colpita prima dalle ombre del doping e poi da quelle della tossicodipendenza – giace protetta, a disposizione di tutti i tifosi che l’hanno amato e di coloro che avrebbero voluto farlo. Perché sarebbe impossibile, altrimenti, raccontare – senza essere presi per pazzi - la velocità con la quale il Pirata scalava le montagne. Tutte le montagne, dall’Alpe d'Huez al Mortirolo.
Giuliano Guzzo
Mi ricordo anch'io....Pantani che vinceva,che stravinceva,soprannominato"Il Pirata",Pantali con le braccia al cielo,vittorioso al traguardo.Poi,quella sera tornata in treno da Milano,mio padre appena scendo,mi fa:-E'morto Pantani.
RispondiEliminaE anche se siamo straappassionati di calcio e abbiamo sempre seguito poco il ciclismo,era commosso per la morte in solitudine di uno che tanto aveva emozionato le folle.