Secondo le prime testimonianze, lo squarcio è di circa sette metri per cinque e le macerie che si sono accumulate sul pavimento della chiesa sono alte oltre un metro e mezzo. Già ieri c'era stato un primo cedimento. L'edificio risale al XVI secolo ed è di proprietà dell'università di Urbino, che ha fatto costruire sul versante occidentale della collina i collegi per gli studenti.
Di questo luogo parlò il Pascoli ne "L'Aquilone", una poesia della memoria, sulla vita e sulla morte prematura, violenta, che racconta un episodio controverso dell’infanzia del poeta, in cui la gioia e la felicità di un ricordo del passato si uniscono all’amarezza per la morte di un compagno del collegio.
In ventuno terzine in versi endecasillabi, Pascoli ribadisce un concetto che è diventato il cardine degli studi sulla memoria: il ricordo è un elemento bifronte, che può riaccendere sentimenti di pura e incontaminata nostalgia, ma anche intensi momenti di dolore.
La giornata particolare ha ricordato al poeta il suo passato. Con la mente è andato altrove e intorno gli sembra che siano nate le viole nel bosco del convento dei cappuccini tra le foglie morte cadute dalle querce.
L'aria mite ha sciolto la terra ghiacciata e ha lambito anche le chiese di campagna; è l'aria, per il poeta, di un luogo lontano e di un tempo diverso - l'aria che usava per far volare gli aquiloni.
Pascoli rievoca una mattina senza scuola. Con i compagni esce nel cortile, tra le siepi irte, con qualche bacca rossa autunnale e qualche fiore primaverile bianco. Sugli alberi zampettava un pettirosso e da un fossato si vedeva uscire una lucertola.
Davanti al poeta e ai suoi amici, era Urbino: nel vento tutti facevano volare nel cielo azzurro il loro aquilone. Gli aquiloni volavano nel vento, mentre i ragazzi gridavano, prendendo il filo dalla mano di chi li faceva volare. Con l'aquilone anche i ragazzi si sentivano come volare. Ma ogni tanto il vento faceva andare di sbieco l'aquilone: ciò faceva gridare i ragazzi.
Quelle voci ricordate fanno rimembrare al poeta i suoi compagni, soprattutto quello morente per cui ha pianto e pregato. Quel compagno è stato più fortunato perché il suo più grande dolore è stato vedere cadere gli aquiloni. Pascoli, infatti, crede che morire giovani è più dolce che da adulti, perché almeno vicino alla madre.
L'AQUILONE
C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.
Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch'erbose hanno le soglie:
un'aria d'altro luogo e d'altro mese
e d'altra vita: un'aria celestina
che regga molte bianche ali sospese...
sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d'albaspina.
Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
d'autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.
S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù... Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?
Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all'improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...
A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l'omero il pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra te l'orazïoni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch'io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto...
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co' bei capelli a onda
tua madre... adagio, per non farti male.
La giornata particolare ha ricordato al poeta il suo passato. Con la mente è andato altrove e intorno gli sembra che siano nate le viole nel bosco del convento dei cappuccini tra le foglie morte cadute dalle querce.
L'aria mite ha sciolto la terra ghiacciata e ha lambito anche le chiese di campagna; è l'aria, per il poeta, di un luogo lontano e di un tempo diverso - l'aria che usava per far volare gli aquiloni.
Pascoli rievoca una mattina senza scuola. Con i compagni esce nel cortile, tra le siepi irte, con qualche bacca rossa autunnale e qualche fiore primaverile bianco. Sugli alberi zampettava un pettirosso e da un fossato si vedeva uscire una lucertola.
Davanti al poeta e ai suoi amici, era Urbino: nel vento tutti facevano volare nel cielo azzurro il loro aquilone. Gli aquiloni volavano nel vento, mentre i ragazzi gridavano, prendendo il filo dalla mano di chi li faceva volare. Con l'aquilone anche i ragazzi si sentivano come volare. Ma ogni tanto il vento faceva andare di sbieco l'aquilone: ciò faceva gridare i ragazzi.
Quelle voci ricordate fanno rimembrare al poeta i suoi compagni, soprattutto quello morente per cui ha pianto e pregato. Quel compagno è stato più fortunato perché il suo più grande dolore è stato vedere cadere gli aquiloni. Pascoli, infatti, crede che morire giovani è più dolce che da adulti, perché almeno vicino alla madre.
L'AQUILONE
C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d'antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.
Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch'erbose hanno le soglie:
un'aria d'altro luogo e d'altro mese
e d'altra vita: un'aria celestina
che regga molte bianche ali sospese...
sì, gli aquiloni! È questa una mattina
che non c'è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d'albaspina.
Le siepi erano brulle, irte; ma c'era
d'autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.
S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù... Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?
Sono le voci della camerata
mia: le conosco tutte all'improvviso,
una dolce, una acuta, una velata...
A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! e te, sì, che abbandoni
su l'omero il pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra te l'orazïoni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
Tu eri tutto bianco, io mi rammento.
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch'io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto...
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co' bei capelli a onda
tua madre... adagio, per non farti male.
Questa è la poesia che recitai agli esami di quinta elementare.Il decadentista Pascoli,quanti ricordi comincio ad avere anch'io!La mia bravissima maestra Rita ci parlò anche del convento.Mi dispiace del crollo
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