19/03/12

Dieci anni fa fu assassinato Marco Biagi: a che punto siamo?


Il decennale dell’assassinio di Marco Biagi coincide con la settimana in cui il governo Monti dovrà concludere la difficile trattativa sulla riforma del mercato del lavoro. Un mercato del lavoro, quello italiano, che Biagi definì il peggiore dal punto di vista della sua capacità di inclusione, cioè di determinare alti tassi di occupazione, ma che negli ultimi vent’anni, grazie al processo riformatore avviato con la legge Treu e poi proprio con la legge Biagi, qualche passo in avanti lo ha fatto. Importante ma non sufficiente, e il freno maggiore è sempre arrivato dalla parte più conservatrice del sindacato, che fu acerrima avversaria di Biagi e della sua dottrina della flessibilità (la flexicurity di cui tanto si parla oggi era l’anima del suo Libro bianco).

Eppure, grazie alle politiche ispirate a quella dottrina, il nostro mercato del lavoro ha registrato, pur con tutte le sue contraddizioni, una dinamica di crescita ininterrotta per i primi otto anni del Duemila, nonostante le performance scadenti dell’economia e un sistema di welfare divenuto ormai obsoleto - ma che continua ad essere strenuamente difeso - che usa le risorse dei più deboli a favore dei più forti, ma che nell’immaginario di una parte del Paese si erge come l’ultimo muro di Berlino della sinistra ideologica.

La lezione di Biagi, che il ministro Sacconi ha molto ben declinato negli anni di governo del centrodestra, è molto semplice: l’Italia non andrà da nessuna parte, non riuscirà mai ad affrontare i nuovi bisogni, e a riconoscere i nuovi diritti, se non sarà in grado di riequilibrare la spesa sociale in favore dei giovani. È giusto ricordare che il governo Prodi invece, con il protocollo del luglio 2007 e con la legge che lo recepì scelse di togliere dieci miliardi di euro all’occupazione giovanile per investirla nelle pensioni di poche decine di migliaia di persone. A dieci anni dalla morte, Marco Biagi resta il discrimine tra il riformismo di chi sa guardare al futuro e il massimalismo conservatore della Cgil e di gran parte della sinistra attuale. Biagi lavorava per un welfare che includa, che rimetta in circolazione il lavoro e che non tenda più a escludere, a tenere ai margini i disoccupati attraverso il “welfare to work” e l’emersione e la trasformazione dei sussidi assistenziali da mera integrazione al reddito, a incentivi per un veloce reimpiego.

La grande intuizione di Biagi fu quella di garantire un sostanziale equilibrio tra una maggiore flessibilità di ogni singolo rapporto di lavoro e la maggiore protezione della persona nel mercato del lavoro, e questi sono gli obiettivi della riforma che dovrebbe vedere la luce tra pochi giorni. Se dieci anni fa le idee di Marco Biagi sembrarono fin troppo innovative, in realtà rappresentavano un orizzonte necessario che si doveva assolutamente percorrere, a partire dalla creazione di un mercato del lavoro più moderno, più inclusivo, più aperto ai giovani e alle donne, agli esclusi di sempre. Un mercato del lavoro con al centro le esigenze dell’impresa e il valore della persona. Eppure la sinistra in questi anni non ha fatto altro che accusare la legge Biagi - e i governi che l’hanno applicata - di aver precarizzato la vita degli italiani. Invece, grazie a Biagi, oggi in Italia ci sono più persone che hanno finalmente visto realizzarsi un loro sacrosanto diritto, e cioè il diritto a un lavoro di qualità.

Un esempio per tutti: i contratti a termine hanno avuto elevate percentuali di trasformazione in contratti permanenti: dal 38% si è passati al 47%. Con la legge Biagi sono tutelate la maternità e la malattia, e la contribuzione previdenziale è stata aumentata di quasi 4 punti percentuali. Altre tutele per il lavoratore sono state l’estensione della cassa integrazione anche alle piccole imprese e a settori che non ne avevano diritto, e i sussidi al reddito per chi perde il posto di lavoro sono stati aumentati di ben 10 punti percentuali. L’eredità politica e culturale di Marco Biagi resta insomma un patrimonio prezioso per il riformismo italiano.
Di Paolo

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