18/05/12

IL GIORNO PRIMO E L’OTTAVO /23. Anche la ragione pecca!

Il Grande Divorzio - 3

Il secondo incontro de Il grande divorzio cui prestiamo attenzione è qualcosa di molto, molto sottile. Il dialogo che Lewis ci offre si svolge tra un giovane spirito, Dick, e uno spettro che stavolta è un vescovo. Oibò! Il significato di questa scelta credo stia in due aspetti: il primo è che un vescovo è un predicatore, un divulgatore di pensieri, accusato in questo caso di essere un ciarlatano; il secondo è che l’episcopato consiste in uno stadio avanzato di carriera e di prestigio: si vuol quindi accusare chi ha interessi di bassa lega, quali il piacere del consenso, e rinuncia alle esigenze di una ragione vera preferendovi la difesa di idiozie facilmente appaganti. In questo caso, il prezzo pagato per il compromesso è stato la perdita della fede! Il vescovo è ...
qui uno spettro e dunque un essere che sta all’inferno. Non che lo abbia compreso: d’altronde non gli interessa arrivare in paradiso, perché sa bene che là gli toccherebbe chinare il proprio intelletto a Dio. Il vescovo preferisce dunque non incontrarLo e, per giustificarsi ancor meglio, sostiene che Dio è un prodotto della mente umana, un essere che non esiste, non in senso letterale, piuttosto una metafora o un simbolo. Lui, il vescovo, sostiene che il sapore della vita sta nella superiorità della ricerca sul risultato finale. Non riporto tutto il dialogo, ma solo il giudizio che Dick esprime di questo atteggiamento: anch’egli ha condiviso per un tratto la strada del vescovo, giungendo tuttavia a ravvedersene, e ora può dichiarare apertamente qual era la colpa celata dietro quella rivendicazione brillante. 


Spirito: «Può effettivamente affermare che non vi siano peccati dell’intelletto?» 
Spettro: «Ve ne sono, Dick. Vi è il giudizio retrogrado, e la disonestà intellettuale, e la timidezza e l’abulia. Ma delle oneste opinioni intrepidamente seguite non sono peccati.» […] 
Spirito: «Siamo franchi. Noi ci ponemmo in contatto con certe correnti di pensiero e vi aderimmo perché esse apparivano moderne e foriere di successo. All’università, si ricorda, cominciammo del tutto automaticamente a scrivere quella specie di saggi che ottengono buoni giudizi critici asserendo quel tipo di cose che suscitano sempre gli applausi. Quando mai, nel corso dell’intera nostra vita, affrontammo onestamente, in solitudine, la sola domanda su cui tutto sì impernia: se, dopotutto, il sovrannaturale potesse costituire un fatto? Quando mai abbiamo opposto una reale resistenza, fosse pure per un momento , alla perdita della nostra fede? […] Lei sa che noi due abbiamo giocato con dadi truccati. Non volevamo che l’alterità fosse vera. […] Avendo consentito noi stessi di andare alla deriva, docili, senza pregare, accettando qualsiasi semiconscia sollecitazione dei nostri desideri, noi raggiungemmo un punto in cui non potevamo più credere nella Fede. Allo stesso modo, un uomo invidioso, che si lasci andare e sia imbelle, raggiunge un punto in cui egli accetta qualsiasi menzogna circa il suo miglior amico: e uno sbronzo raggiunge un punto in cui (per un momento) egli effettivamente crede che un altro bicchiere non gli nuocerà. Le credenze sono sincere nel senso che esse accadono quali eventi psicologici nella mente dell’uomo. Se questo è ciò che lei intende per sincerità esse sono sincere, e così erano le nostre. Ma errori che sono sinceri in questo senso, non sono però innocenti.» 


Mi sembrano illuminanti l’inizio e la fine di questo spaccato, che esprimono due giudizi pesanti: esistono peccati d’intelletto, non solo peccati del comportamento; inoltre, la sincerità di esprimere motivazioni scaturite da un presupposto sbagliato non è innocente, ma colpevole. 

Avrete intuito, indirettamente, che l’episodio tocca un tema assolutamente caro alla modernità, quello del diritto alla libera produzione di idee. Non tanto la loro circolazione, ma, ancora più a monte, proprio la loro libera produzione viene difesa come uno dei baluardi della libertà, se non della dignità personale. L’accento non è posto sui contenuti, ma sul principio per cui ogni individuo è tale nella misura in cui pensa, nella misura in cui ha la possibilità di esprimere opinioni. Non è nemmeno importante difendere le opinioni proprie: si difende solo il diritto a dirne, perché si vuole pure il diritto a poter recedere da ciò che si è detto, in qualsiasi momento. 
L’affermazione della non-esistenza di Dio o di una verità assoluta è l’esito di questo percorso, scelto con assoluta consapevolezza. Non è vero che Dio non esiste: è vero che oggi è stato costruito, aperto, legittimato il percorso per arrivare a decretarne l’inesistenza. La mancanza di fede è il frutto di un percorso ben calcolato e per questo non è semplicemente una opinione, ma è una colpa. Una colpa della libera ragione odierna. 

Faccio notare un ultimo particolare. Nel dialogo vengono poste un paio di domande che sintetizzo: quando mai ci siamo soffermati, in solitudine, a chiederci davvero se il soprannaturale era reale o no, e se ci conveniva davvero ignorarlo o no? E quando mai abbiamo pensato di difendere la nostra fede con lo strumento della preghiera? 

Non è il ragionamento puro e svincolato lo strumento per giungere alla realtà di Dio. A lui si giunge quando la persona integra tutte le dimensioni di sé e si apre al gesto più pienamente umano che esista: la preghiera. Oggi si prega davvero poco e dunque si è vuoti di fede. Eppure, si pontifica, urca se si pontifica!!! 

Conoscete qualche peccato della ragione?
Don Alberto

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