Proposte per la costruzione di un Sistema nazionale d’asilo. La riorganizzazione di cui sopra è passata sia dal potenziamento della complessiva capacità ricettiva che dal graduale miglioramento della gestione del fenomeno, in merito, ad esempio, agli standard di accoglienza realizzati, alle problematiche emerse nella tutela dei casi vulnerabili nonché alla predisposizione di iniziative di integrazione a favore di quanti ottengono una forma di protezione da parte dello Stato. Nell’ambito di tali attività non sono mancate le forme di valorizzazione delle iniziative nate dal basso dalle organizzazioni del terzo settore e degli enti locali che, a livello territoriale, cercano di rispondere alle necessità dei richiedenti asilo e dei rifugiati in stato di bisogno.
Tali attività, inizialmente spontanee e non coordinate che cercano di rispondere, nell’immediato all’urgenza del problema gettano in seguito, con l’avvio di forme di coordinamento o di rete[8] le basi di quello che diventerà il “modello italiano d’accoglienza”. Nonostante gli indubbi e numerosi progressi di carattere organizzativo e normativo menzionati prima, il completamento di un sistema nazionale d’asilo si può considerare tuttavia tutt’altro che compiuto. L’importanza, le dimensioni e la strutturalità del fenomeno non permettono, di conseguenza, che la tematica dell’asilo e della tutela dei rifugiati continui ad essere trattata come una questione secondaria nel quadro dell’elaborazione delle politiche nazionali. A quasi dieci anni dall’avvio del primo dispositivo nazionale d’accoglienza, protezione e integrazione per richiedenti asilo e rifugiati in Italia[9] - forte, anche su scala internazionale, di diversi elementi innovativi - l’efficacia del sistema italiano richiede di essere ulteriormente rafforzato, alla luce anche dei parametri definiti in sede comunitaria e nel quadro del processo di armonizzazione delle politiche nel settore dell’asilo lanciato nel 1999 a Tampere. A tal fine, un sistema completo e composito di accoglienza e tutela dei richiedenti e titolari della protezione internazionale dovrebbe poggiare su di un articolato sistema di attori e risorse in grado di coinvolgere tutte le risorse territoriali da un lato, ed assicurare un solido collegamento con il sistema produttivo nazionale dell’altro.
Per implementare ulteriormente questa forma di governance nel contesto attuale, e ancor più, al fine di perseguire una strategia mirata ad offrire ai beneficiari il massimo livello di autonomia necessaria all’inserimento e all’integrazione nel contesto territoriale, è opportuno un coinvolgimento di quei soggetti che ricoprono ancora un ruolo marginale, nello specifico valorizzando il ruolo delle Regioni e delle Province[10], ma anche sollecitando un collegamento proficuo col mondo di lavoro[11]. A tal fine potrebbero essere sperimentate sin da oggi, anche attraverso l’uso di risorse comunitarie, ulteriori misure volte a favorire un più veloce inserimento socio-lavorativo dei titolari di protezione internazionale sul territorio. Tali misure potrebbero riguardare la realizzazione di un programma pilota che individui possibili forme di job-maching tra domanda e offerta di lavoro da parte della popolazione rifugiata o titolare di protezione sussidiaria.
Allo stesso tempo, alla luce dei frequenti fenomeni di disagio sociale che interessano numerosi titolari della protezione internazionale, e che si manifestano particolarmente nelle principali aree urbane, è opportuno avviare una riflessione sulla rispondenza del sistema di accoglienza[12], o attraverso un potenziamento significativo dell’attuale dispositivo nazionale nei termini della complessiva ricettività del sistema (a partire dal finanziamento di esperienze in grado di assicurare risultati di lunga durata in termini di integrazione), oppure attraverso riconoscimento di un contributo economico personalizzato per quanti non possono o non vogliono usufruire di tale accoglienza. Considerando peraltro la ristrettezza delle risorse disponibili, il problema può essere inizialmente affrontato facendo fruttare al massimo il periodo di accoglienza dei beneficiari nei cosiddetti CARA – Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo. Ciò è auspicabile sia per quanto riguarda l’inserimento nella rete Sprar delle persone soggette a particolari vulnerabilità, sia per quanto riguarda l’inserimento nel tessuto lavorativo delle categorie cosiddette “ordinarie” che non riescono a trovare un posto in accoglienza nello Sprar e/o che non sono interessate a tale inserimento.
[8] In tal senso merita particolare attenzione
l’esperienza del Progetto Azione Comune, del Programma Nazionale Asilo e del
Sistema di Protezione per richiedenti asilo e rifugiati.
[9] Il riferimento è al PNA – Programma
Nazionale Asilo.
[10] Per esempio attraverso il
potenziamento delle attività di formazione professionale già durante la fase
della prima accoglienza all’interno dei CARA.
[11] Il riferimento è proprio alle
sperimentazioni avviate nell’ambito dei Progetti Mare Nostrum finanziato
nell’ambito delle c.d Azioni Comunitarie del FER nonché del Progetto Nautiluus
avviate nell’ambito dei progetti finanziati con il FER Nazionale.
[12] Si pensi ad esempio alla necessità di un maggior coordinamento delle misure di
accoglienza tra quanto disposto dalD.lgs 140/05 e le misure in materia di
accoglienza successivamente introdotte con il D.lgs 25/08 e con il D.lgs
159/08ed in ultima analisi sul legame tra il sistema di accoglienza
nei CARA, il sistema SPRAR e alcune realtà territoriali dalle
caratteristiche peculiari (zone di arrivi, compresi valichi aeroportuali, aree
metropolitane, come ad esempio. Roma, Milano ecc.).
[13] Quali Croce rossa ma
anche enti come Connecting people che in questi anni ha dimostrato una forte
capacità di gestione dei centri di piccole e grosse dimensioni,
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