I dieci libri imperdibili, i dieci dischi da portare su un'isola deserta, i dieci film più importanti nella storia del cinema. Nel corso della vita ci imbattiamo spesso in questo tipo di liste – sostanzialmente non pretenziosi esercizi di classificazione – che, quasi sempre in forma di decalogo, intendono offrire un'agile guida per districarsi nel ginepraio nel quale il neofita viene catapultato nel momento in cui timidamente si accosta a un ambito culturale. Proprio per il loro carattere estemporaneo e sostanzialmente frutto delle sensibilità e dei gusti personali dei compilatori, il più delle volte si tratta di cataloghi da non prendere troppo sul serio. Relativizzare è quindi d'obbligo. E a questa regola non si sottrae certo il decalogo recentemente pubblicato sul noto settimanale cattolico statunitense “Our Sunday Visitor” con l'impegnativo titolo Ten things to do before you kick the bucket (“Le dieci cose da fare prima di tirare le cuoia”), ovvero, come spiega il sommario, “una lista empatica non esaustiva delle cose da fare in una vita cattolica ben vissuta”.
Vista la prospettiva, l'idea è sicuramente originale. E lo è ancora di più se si considerano alcuni dei suggerimenti offerti dall'autore, Mark Shea. Infatti, oltre ad alcuni consigli tutto sommato prevedibili o comunque comprensibili - visitare le grandi cattedrali come Notre Dame a Parigi; andare in pellegrinaggio, in particolare sul cammino di Santiago; leggere i classici cattolici, dai padri della Chiesa fino agli scrittori moderni, soprattutto Chesterton; compiere le opere di misericordia; riconciliarsi con Dio – compaiono voci decisamente inattese.
E infatti fa un certo effetto l'invito ad assistere alle opere di Shakespeare, “il più grande drammaturgo cattolico in assoluto”. Il suggerimento è preciso: bisogna andare in teatro, perché solo dal palco si percepisce in pieno il significato delle piéce del Bardo. Anzi, il cattolico dovrebbe recarsi al Globe di Londra o all'Asheland Shakespeare Festival in Oregon e, qualora si sentisse intimidito al cospetto di cotanta arte, “potrebbe cominciare con una commedia per poi affrontare storie come Enrico V, o tragedie come Re Lear”.
Ma sicuramente molto più sorprendente è l'avere inserito al numero otto del decalogo (non sappiamo se c'è un'ordine di priorità) In beat with the faith (“A ritmo della fede”), che suona come un invito a riscoprire “quanto la cultura cattolica abbia fatto da matrice alla grande musica pop mondiale”. Shea ricorda, ad esempio, come il jazz, che solitamente si ritiene nato in ambienti non proprio edificanti, sia sorto invece nel contesto cattolico di New Orleans.
Poi cita direttamente come esempi di musica ispirata da una visione cattolica Let it be ed Eleanor Rigby, due canzoni dei Beatles, nientemeno che quelli che si erano dichiarati più famosi di Gesù suscitando un pandemonio e che, secondo alcuni, nascondevano nei testi persino allusioni ad demonio. Forse Shea avrà letto al riguardo alcuni articoli dell'”Osservatore Romano” (La rivoluzione bianca della banda dei quattro e I Sette anni che sconvolsero la musica) , su postumi perdoni vaticani. Quindi si lascia prendere la mano e si spinge oltre, affermando che dall'influenza cattolica non si può sfuggire neanche quando la si vuole negare, come nel caso di Lady Gaga o Madonna: “Anche nella sua blasfemia, il diavolo – sottolinea l'autore – non può fare a meno di offrire il suo omaggio alla Chiesa. Ogni ginocchio deve piegarsi”. Insomma, avanti a tutto rock.
Ma dopo queste imprevedibili incursioni, per qualcuno disorientanti, non si può non ricordare il consiglio che Shea pone al primo posto: recarsi a Roma. É il più ovvio, ammette egli stesso, ma le motivazioni non sono del tutto scontate. Infatti, spiega l'autore, “più antico di New York, Los Angeles e Washington messe insieme, per non menzionare Londra, Parigi, Berlino e il concetto della nazione-stato, questo era il luogo a cui la civiltà chiamata 'Europa' guardava per comprendere cosa stava facendo un popolo civilizzato, mentre inglesi, francesi e tedeschi correvano nudi e dipinti di blu per i boschi. Sì, mentre tutto ciò che noi pensiamo come 'Europa moderna' era ubriaco di idromele, viveva in capanne di fango e la costruzione di file di pietre era la più grande conquista culturale, Roma era già antica”.
Dunque, bisogna recarsi a Roma almeno una volta nella vita, e non soltanto perché ci sono il Papa e le tombe dei santi Pietro e Paolo, che già sarebbe ben più che sufficiente. Ma anche perché nella Città Eterna c'è tutto il sapore della storia e dell'arte. E anche quello del cibo italiano, chiosa Shea, tanto per non farsi mancare nulla. E come dargli torto: vuoi mettere, oltre alla Cappella Sistina e al Colosseo, le leccornie degli italici piatti a confronto con un hamburger o un hot dog!
Si prendano appunti, dunque. E si cominci a spuntare la lista. Qualcuno certo sarà avvantaggiato. Ma tutto sommato, poteva andare peggio.
Giuseppe Fiorentino e Gaetano Vallini
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